Dal 1530.. L'Imperiale e le Marche.. al 1540

28.02.2021

In questi anni il nostro Raffaellino del Colle si sposta a Pesaro per una nuova committenza, apportando a questa cittadina quel raffaellismo che le Marche non avevano ancora avuto il piacere di conoscere appieno, almeno fino al 1530. Il nuovo "vento" proveniente da Roma, stava tirando verso nord, per attraversare l'Italia. La regione marchigiana inizialmente rimase quasi del tutto impermeabile a questa trasformazione moderna; l'assenza di influsso di Raffaello nella regione, salvo rare eccezioni di importazione, è dovuta prevalentemente all'assenza di opere esposte alla pubblica fruizione. Vero che il Sanzio non interruppe mai i rapporti con Urbino ma le sue committenze erano per lo più private (Guidobaldo e Giovanna Feltria in particolare) e che esse furono di difficile accesso a chi non fosse strettamente legato alla corte, è presumibile. Oltre che la posizione geografica delle Marche non ha sicuramente aiutato; influenzata dalla presenza degli Appennini che rendeva (e rende) disagevoli le comunicazioni con l'Umbria, quindi, salvo poche eccezioni con apporti di pittori non originari della regione e il cui contributo non ebbe, per molto tempo, alcun seguito; si dovette attendere l'acuta commissione roveresca per dare l'impulso, con la convergenza di una grande équipe, alla diffusione ampia e aggiornata delle grandi nuove idee moderne romane e raffaellesche. Fu ancora una volta merito di un altro "straniero", Raffaellino del Colle. Dunque i poli del recupero della cultura raffaellesca nelle Marche furono Pesaro (divenuta capitale del piccolo stato di Francesco Maria I della Rovere dopo la riconquista del Ducato), Urbino (con il suo palazzo centro carismatico del Ducato), Casteldurante (oggi Urbania, centro prediletto dai Duchi e capitale delle ceramiche), la Valle del Metauro (per la presenza, quasi borgo per borgo, di opere aggiornatissime di Raffaellino) raggiunta dal Nostro superando spesso le giogaie di Massa Trabaria o il più facile passaggio Cagli-Cantiano-Gubbio.

La Villa Imperiale di Pesaro è considerata una delle opere più sorprendenti del Rinascimento Italiano e tra i maggiori cantieri pittorici manieristi, stupisce come il frutto della collaborazione di molte mani e personalità pittoriche differenti, possa risultare così armonioso. Composta da due costruzioni molto differenti tra loro, collegate da un corridoio pensile. Ricordando le parole del Vasari ben informato e documentato, ci dice «Il qual palazzo per ordine e disegno del Genga fu ornato di pittura d'istorie e fatti del duca», ci fa intuire che il Genga (1476-1551) architetto urbinate e artista ufficiale della corte roveresca fu l'inventore dell'intera decorazione, per meglio dire organizzatore. Il cantiere comincia a comporsi già nel 1528: quando Genga restaura la vecchia villa Imperiale, in cui prevede poi un ciclo di affreschi realizzati su commissione dei Duchi: Francesco Maria I della Rovere e sua moglie Eleonora Gonzaga figlia dell'"Immensa" Isabella d'Este. Eleonora consigliata da Gerolamo Genga e probabilmente per Raffaellino anche da Giulio Romano, fu la vera committente (committenza al femminile, abbastanza rara in quei tempi, ma non senza precedenti: si pensi anche soltanto agli interessi artistici della madre citata sopra e alla forte personalità culturale della zia-suocera Elisabetta Gonzaga, tra l'altro protagonista del Cortegiano di Baldassarre Castiglione) degli affreschi che avrebbero dovuto glorificare il marito. A questo proposito ci tengo a riportare ciò che resta della duchessa, oltre al carteggio con il Genga, le parole quasi commosse delle iscrizioni sui prospetti della Villa, con quella dedica costante al marito e quel pensiero continuo ai suoi ritorni « PRO SOLE PRO PULVERE PRO VIGILIIS PRO LABORIBUS UT MILITARE NEGOTIUM REQUIETE INTERPOSITA CLARIOREM LAUDEM FRUCTUSQUE UBERIORES PATRIAT». L'equipe è convocata e, tra il 1530 e il 1532 si svolgerà l'intera decorazione (otto sale affrescate del piano antico). Purtroppo i registri con i pagamenti ai pittori sono andati perduti, si prova quindi a circoscrivere la cronologia totale tra il 1530 e il 1532 in base: alla corrispondenza di Genga con i Della Rovere e ai documenti sulla presenza degli artisti nei loro luoghi di origine. Poiché sui cicli dell'Imperiale non esiste, se non in piccolissima parte, documentazione archivistica diretta: ricordiamo che grazie al biografo aretino (asserita dal Vasari e documentata) la presenza del Bronzino, il quale non potè partire per Pesaro che dopo la conclusione dell'Assedio di Firenze (agosto del '30): e come ricorda P.dal Poggetto (1987) tuttavia vi rimase a lungo inoperoso fino al '32 (in attesa della famosa armatura con cui ritrarre Francesco Maria). Inoperosità che non può che significare la già avvenuta ultimazione dei lavori decorativi della Villa Vecchia. Altro elemento che limita il tempo tra il 1530 e gli inizi del 1532, è l'arrivo all'Imperiale del Menzocchi solo dopo il maggio del 1530 (lettera della duchessa Eleonora che lo richiamava a Venezia in quella data) oltre che l'assenza dei Dossi da Ferrara, ben precisabile tra il dicembre del '29 e il settembre del '30 (e in quel periodo dovette quindi cadere la loro sicura partecipazione all'impresa, nella Sala delle Cariatidi) e la raffigurazione dell'Incoronazione di Carlo V a Bologna, avvenuta il 24 febbraio del 1530, in uno dei soffitti delle otto sale. Infine tornando al nostro artista, parte fondamentale dell'equipe, si può affermare con sicurezza che Raffaellino non si mosse da Sansepolcro prima del '29 almeno, visti gli stretti rapporti (sia di ospitalità che di opere) col Rosso Fiorentino e che il soggiorno pesarese, si incrocia poi con gli impegni da lui assunti nella Compagnia delle Grazie di Sansepolcro della quale, tra il novembre 1530 e il maggio 1531, fu camerlengo. Per l'inverno dobbiamo quindi calcolare un probabile ritorno di Raffaellino a Sansepolcro che divise probabilmente in due o più sessioni i suoi compiti nel nuovo cantiere. Almeno dodici mani di artisti (chi afferma quindici) sono stati individuati dalla critica (numero che può ben corrispondere a quello, non del tutto precisato, del Vasari: sette pittori esattamente indicati più «molti altri»): oltre Girolamo Genga e Raffaellino del Colle, Dosso Dossi, Battista Dossi, Agnolo Bronzino, Francesco Menzocchi, Camillo Mantovano, altri sette pittori per il momento anonimi ed ipoteticamente il Doceno giovanissimo, allievo del Nostro. Per la tesi della partecipazione di quest'ultimo, lo studioso A.Nesi vede Cristoforo Gherardi, detto il Doceno, tra i pittori che parteciparono all'allestimento. Attribuzione avvenuta tramite le somiglianze della volta della Sala dei Semibusti della residenza rinascimentale, eseguita dal suo maestro (Raffaellino Del Colle), con il ciclo di affreschi da lui realizzati a partire dal 1537 nel Castello Bufalini di San Giustino Umbro. Al tempo della decorazione, il Gherardi era sicuramente ancora a stretto contatto con Raffaellino. Il 16 dicembre 1533, a Sansepolcro, terminata la decorazione da qualche tempo, gli fece addirittura da testimone per un rogito riguardante la dote della moglie biturgense Orsina Bartolini, sposata quattro giorni prima. Dunque non c'è ragione di credere che egli non possa aver affiancato il suo primo maestro in questa importante occasione ricevendo poi nelle Marche la committenza indipendente per la pala recanatese. Il Gherardi però non fu l'unico collaboratore del nostro artista, si trovano dipinti vicinissimi al suo stile, chiaramente non autografi. Raffaellino umile per natura, lo vedremo cimentarsi in varie collaborazioni mature con Vasari o ancora con Bronzino, non rifiutando ruoli anche di subordinazione; pur avendo un proprio entourage. Per concludere questa parte introduttiva e passare al "vivo" del lavoro possiamo dire che questi due protagonisti in Villa, Girolamo Genga e Raffaellino del Colle furono i veri divulgatori di novità. Il primo per la regia e la "scenografia" di tutto il complesso (oltreché per l'architettura dell'Imperiale Nuova o Villa della Rovere) ma non come esecutore diretto, il secondo (tra l'altro il più anziano dopo il Genga) per la diffusione di alcune invenzioni pittoriche e di veri e propri stilemi desunti da Raffaello.

Molte più di quanto finora si ritenesse, come si evince dalla scheda di Droghini (2001) e dallo stesso Dal Poggetto (1987 e 2001) le parti che dovrebbero spettare a Raffaellino del Colle, individuato in almeno cinque stanze su otto (o parti di esse). Il primo ambiente la Sala del Giuramento di discrete misure e accentuatamente rettangolare, si impone soprattutto per la rappresentazione del soffitto con la raffigurazione del "Giuramento di Sermide" (precedentemente attribuito al Menzocchi da G.Marchini ora di R.del Colle e G.Genga) in cui tornano, tra i tanti soldati che la affollano, alcuni dei militi della "Adlocutio" della Sala di Costantino in Vaticano. Il Giuramento di Sermide una sorta di attestato di fedeltà che Francesco Maria I ottenne alla fine del 1516 da parte di varie truppe, in una località lungo il Po, è sorretto da 34 puntini alati (mano di Raffaellino nel puntino reggi cortina). Proseguendo, il secondo ambiente, assai più piccolo, chiamato Sala delle Cariatidi. Nella scena affrescata nel soffitto si intende glorificare Francesco Maria I reduce vittorioso dalla Battaglia di Ginestro, evento che si verificò nel 1517. Le vere dominatrici di questa sala intrisa di natura sono le dici Cariatidi (Dosso Dossi, solo in questa sala), o meglio raffigurazioni di Dafne: robuste e ben tornite, alle loro spalle un effetto di vero Plein air. La terza stanza, la Sala dei Semibusti più o meno della stessa grandezza della precedente e riveste un ruolo di centralità tra le sale. Nel soffitto la scena storica rappresenta un evento di cui già abbiamo parlato, importante come ante quem non per la datazione dell'intero ciclo: l'Incoronazione di Carlo V a Bologna il 24 febbraio 1530 (Francesco Maria I vi partecipò ufficialmente, in qualità di prefetto di Roma oltreché di capitano generale della Repubblica Veneta). Tutto lo spazio tra l'ovale e l'architrave è spartito in vele e pennacchi: le prime contengono quattordici lunette con conchiglie e semibusti antichi in finto marmo, sormontate da grottesche su sfondi bianchi; nei secondi sono rappresentate alcune "Deità" tra cui Giove, Marte, Amore; le "Arti" tra cui Pittura, Scultura, Architettura e musica; e ancora la Vittoria (mano di Raffaellino Vittoria e Angelo che dipinge un semibusto) e la Fama. Nella parte inferiore, sulle parete verticali, una serie di paesaggi.(Raffaellino qui dipinge Marte, la Vittoria e forse anche la figura dei semibusti che circondano la sala). La quarta Sala detta Studiolo mostra nel soffitto la Nomina del duca Francesco Maria a capitano della Repubblica Fiorentina, evento del 1522. Nella volta altresì affrescate grottesche di qualità, raffigurazioni della Pace che incendia le armi, nelle pareti Cariatidi e Trofei di armi alternati a pannelli con paesaggi. La scena storica nel soffitto del quinto ambiente Sala degli Amorini dovrebbe rappresentare, secondo la tradizione, la Nomina del duca Francesco Maria I a prefetto di Roma ma è probabile che la titolazione del soggetto sia altra, perchè come vedremo tale nomina risale al 1502 e sconvolgerebbe qualsiasi consecutio cronologica. Il sesto locale, Sala delle Fatiche di Ercole ospita nel suo piccolo soffitto il Conferimento al duca Francesco Maria del bastone di comando da parte del doge di Venezia, evento del 1523. Al di sotto di un incrocio estremamente complesso di grottesche e di frasche nelle volte e nei pennacchi, le piccole lunette mostrano una scena delle più rappresentative Fatiche d'Ercole. Il settimo ambiente la Sala dei Fiumi è la stanza più grande del piano nobile e non contiene scene storiche nel soffitto: esso è piano e non voltato, decorato con un grandissimo numero di piccoli riquadri (ben 682) in cartapesta vivacemente colorata e le loro imprese principali (Agnolo Bronzino, Fiumi). L'ultimo ambiente è l'ottava Sala della Calunnia; soffitto piano non affrescato ma decorato con 117 riquadri in cartapesta contenenti simboli di non facile scioglimento, tutti emblemi astrali riferibili alla vita del duca. Sulle due pareti principali si trovano da un lato il gruppo della Calunnia di Apelle con la raffigurazione del Re Mida mal consigliato dai Vizi, ai lati la Verità e il Pentimento; dall'altro la Glorificazione di Francesco Maria I da parte delle Virtù Cardinali, e ai lati L'Abbondanza e la Pace. Sulla parete più breve è raffigurata La Carità tra Speranza e Fede; infine sulle pareti delle finestre Diana Efesia sopra il camino. Raffaellino raggiunge nell'insieme un raro equilibrio, che si traduce in un convincente dosaggio di classicismo e di prudenti eleganze già manieristiche. Queste qualità riappariranno negli affreschi dell'Oratorio del Corpus Domini di Urbania poco avanti, lavoro che più di altri caratterizza l'attività marchigiana di Raffaellino. 



 Prima però non bisogna dimenticare che l'equipe dell'Imperiale non si smembrò subito; al contrario, nell'ambito del periodo in cui può ragionevolmente essere circoscritta (come abbiamo visto) l'esecuzione della decorazione della Villa pesarese, il nostro artista operò ancora, insieme almeno al Menzocchi (scene figurate) e a Camillo Capelli mantovano (per le decorazioni vegetali), sia su commissione del duca che su richiesta di alcune parrocchie. A confermarlo anche P.Dal Poggetto (2001), legata a questo momento anche la decorazione ad affresco di un delizioso ambiente a pian terreno in un ala del Palazzo Ducale di Pesaro. La "Loggia del Giardino segreto" la cui volta è completamente ricoperta di piante e arbusti che circondano cinque medaglioni simbolicamente alludenti ai fasti del Ducato. Degradatissima nei secoli ebbe bisogno di un restauro che datò le pitture al 1530 circa. Al lato del portale principale di ingesso, a sinistra, si trova un androne che porta direttamente al Cortile della caccia, ampio giardino dove i Duchi solevano tenere, nel periodo di carnevale, giochi, tornei e cacce al toro. Dal Cortile della caccia si può accedere direttamente alla Loggia che dà sul Giardino segreto, oggi comunemente chiamata Loggia del Genga (vi sono comunque altri punti di accesso alla loggia). La Loggia fu fatta realizzare da Francesco Maria I della Rovere intorno al 1530, su progetto dell'architetto Gerolamo Genga. Le decorazioni del soffitto e delle lunette sono a "boscarecce" con fronde e rami di alberi probabilmente sostenuti da Cariatidi o Telamoni, oggi scomparsi, con precisi richiami alle sale decorate di Villa Imperiale a cui certamente si ispirarono i pittori della Loggia. Olivi, aranci, alloro, vite e naturalmente, fronde di quercia, sono tra gli alberi raffigurati insieme a molte specie di uccelli a rappresentare un gioco, quasi una finzione scenica, tra il finto giardino e il vero giardino adiacente. Le "boscarecce" sono interrotte, al centro della volta, da cinque "arazzi" dipinti contenenti cinque storie. All'estremità dei tre "arazzi" ve ne sono due piccoli: uno raffigura la Vittoria alata con serto d'alloro e fronda di palma tra due uomini distesi che versano acqua da due brocche simboleggianti fiumi. Le tre scene centrali, vogliono celebrare le gesta di Francesco Maria I, quale Protettore delle Arti, dell'Architettura nonché valoroso condottiero. Dalla parte opposta, a chiudere l'allegoria, l'altro piccolo arazzo rappresenta due figure alate con lunghe trombe, simboleggianti la Fama, le quali sovrastano un uomo sdraiato con una brocca d'acqua che scorre: probabilmente un fiume. Questo medaglione è dipinto da Raffaellino e non è difficile fare confronti con le scene del Giuramento di Sermide (Imm.16) e della Calunnia. Solo negli ultimi decenni la critica si è interessata a questo loggiato ed i primi a parlare di Raffaellino sono la Fontebuoni (1986), il Luchetti (1986) e in particolare, Dal Poggetto (1989 e 1992) oltre il testo di A.Ugoccioni (2004, citato in nota 87). Appena conclusosi il lavoro alla Villa e alla Loggia Pesarese di Palazzo Ducale, Raffaellino sempre in provincia, eseguì il Ciclo del Corpus Domini di Urbania. 

Urbania (PU), dall’Oratorio del Corpus Domini, Museo Leonardi, olio su tela: Madonna del Velo                          con gli Arcangeli Gabriele, Raffaele e Michele. (1531-1532 ca)
Urbania (PU), dall’Oratorio del Corpus Domini, Museo Leonardi, olio su tela: Madonna del Velo con gli Arcangeli Gabriele, Raffaele e Michele. (1531-1532 ca)


Edificio sacro un tempo appartenente alla Compagnia del Corpus Domini, altrimenti detta dei fustigati, ovvero «una delle istituzioni religiose più antiche di Urbania esistente già al principio del Trecento. Tale compagnia, devota al corpo di Cristo, era dedicata alla cura dei malati poveri della città difatti, addossato alla nostra chiesa, si trovava un ospedale dove i confratelli espletavano i loro nobili propositi». Si confonde tra le case di via Garibaldi nel centro della città. Il ciclo è composto attualmente da un racconto per immagini della vita di Cristo, l'ideale percorso spirituale dell'uomo. Le lunette raffigurano Profeti e Sibille in atto di leggere o scrivere e affiancate da puttini. Dense di riferimenti a famosi testi di Raffaello e Michelangelo sono sistemate alternate e circondano la parte alta delle pareti. Per precisione sono diciotto, di cui tredici di Raffaellino del Colle. La Sibilla Samia la prima tra le nostre immagini, propone un tipo femminile piuttosto enfatico, grandiosamente avvolto nel panneggio, che tornerà per esempio nella seconda Annunciazione di Città di Castello. Possiamo ormai considerare tipici di Raffaellino gli effetti metallici del chiaroscuro e la grafia insistentemente analitica nelle vesti, cui qui si aggiunge un tentativo di più complessa articolazione plastica (probabili suggestioni michelangiolesche filtrate dal Genga). Non tutte le lunette rivelano la mano del Nostro, proprio per questo probabilmente l'equipe pesarese non è da escludere abbia partecipato. Sempre di Raffaellino la Sacra Famiglia con i santi Elisabetta e Giovannino dipinta nell'unico altare della parete di sinistra, in genere nominato della Beata Vergine e di S.Giuseppe. la Sacra Famiglia derivante dallo stesso tema realizzato da Raffaello Sanzio per Francesco I (Louvre) (alla cui stesura, secondo alcuni studiosi (Hartt 1944), Raffaellino stesso avrebbe partecipato nei primi anni di allunato con Giulio Romano) è coronata da una splendida incorniciatura e sormontata da una lunetta con Padre Eterno. Raffaellino del Colle dipinse, oltre agli affreschi, anche le due tele ai lati dell'altare maggiore (tale posizione si è poi mantenuta sino al recente trasferimento al museo Leonardi): Il Redentore e angeli pendant con La Madonna del velo, su committenza di "Bernardino Ugolini", commissario della Massa, la cui famiglia abitava proprio di fronte alla chiesa. La tela della Madonna è caratterizzata da caratteri di assoluta eleganza, associati ad una sofisticata cura del dettaglio che documenta l'abilità tecnica e l'alta sapienza descrittiva del biturgense. Basta osservare il velo, finissimo che fa trasparire l'arcangelo Michele, quei riccioli perfetti dell'arcangelo Gabriele, i tessuti con quell'insistito impegno nelle pieghe tanto care a Raffaellino, nonché quegli elementi naturalistici in primo piano, il pesce in basso a destra brillante inserto paragonabile ai migliori risultati offerti da Giovanni da Udine. Indubbiamente la Madonna del Velo, assieme alle altre decorazioni, rappresenta una delle pietre miliari nell'elaborazione del cosiddetto "Manierismo metaurense". Ciò valse anche per il grande Federico Barocci, che non rimase certo insensibile alla grazia raffaellinesca in opere come quella in esame. Vi sono eventi e fatti che non si possono approfondire in questa sede, ma che lo studioso Droghini (2010) ha esaustivamente esposto nel suo articolo dedicato. In breve posso provare a condensare gli argomenti: si parla dei vari pareri sul periodo di costruzione della chiesa-oratorio del Corpus Domini, dello stato conservativo dei dipinti al suo interno "malconci" già nel Cinquecento e i vari restauri che furono importanti per ricostruire dinamiche iconografiche. Inoltre lo studio contiene l'interpretazione delle Memorie ecclesiastiche di Urbania di don Enrico Rossi, ovvero la sintesi di tutte le minuziose ricerche affrontate dal medesimo studioso negli archivi pubblici e privati urbaniesi. Partendo da Giuseppe Raffaelli (1879), a sua volta espressione di una memoria ancor più antica che individua gli Ubaldi come committenti delle pitture e afferma che Raffaellino fu «fatto a bella posta venire dai conti Ubaldini patroni della cappella nell'altare sommentovato». Si cerca di risalire al nome del committente tramite questi documenti. Commissione da parte degli Ubaldini di Montevicino poi ripetuta nella Memoria sempre del Raffaelli in cui troviamo scritto che il pittore biturgense «ad istanza dei famosi Ubaldini conti di Monte Vicino, i quali abitavano di fronte alla chiesa nelle case per metà oggi aggiunte alla mia, condussevi questi meravigliosi dipinti». Il Rossi in seguito nelle sue Memorie ecclesiastiche propose un nome e una data precisa poiché dichiara che «Bernardino degli Ubaldini, commissario di Massa volle decorata la chiesa del Corpus Domini di nobili affreschi (1530-1538)». In sostanza dunque, la proprietà di Montevicino del palazzo di fronte alla chiesa del Corpus Domini, unita all'istituzione di un legato da parte di Bernardino Ubaldini sempre di Montevicino all'altare con la pala murale raffaellinesca, ha generalmente portato a congetturare che i medesimi signori, sostituiti dal Rossi con gli Ubaldini della Carda, furono i committenti di Raffaellino.Il Rossi, eleggendo a patrocinatore delle pitture o, almeno a richiedente, ha poi fatto emergere un certo Bernardino Ubaldini, senza distinguere il ramo di appartenenza, connesso alla datazione, estremamente dilatata 1530-1538. Lo studio precisa che don E.Rossi (1936) non ha reperito un'esatta documentazione, in merito al presunto patrocinio Ubaldini (materiale che risulta irreperibile già nell'Ottocento). Quindi, in estrema sintesi, si ricorda che il palazzo davanti alla chiesa divenne ufficialmente di proprietà degli Ubaldini di Montevicino, soltanto alla metà del Seicento con Bernardino morto nel 1687. Tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, dovettero inoltre essere unicamente residenti gli Ubaldini della Carda e quelli cosiddetti di Casteldurante «detentori di beni confluiti nel Seicento nel patrimonio degli Ubaldini di Montevicino discendenti, com egli altri due, da Tano di Città di Castello vissuto tra il Duecento e il Trecento». Naturalmente questo porta ad escludere un coinvolgimento nella vicenda almeno degli Ubaldini di Montevicino. Rimanendo così, due rami Ubaldini. Nel contempo, risulta che, all'epoca dell'intervento raffaellinesco erano presenti a Urbania due Bernardino Ubaldini, indubbiamente i membri allora più importanti dei rispettivi rami («Bernardinus Ubaldinus de Terra Durantis» Casteldurante e «Bernardinus Francisci de Carda») che oltretutto abitavano nel quartiere vicino alla chiesa. Tra tali Bernardino quello che spunta un punto a suo favore per essere identificato come commissario della Massa Trabaria è Bernardo di Giovanni. Ad ogni modo, al di la del fatto di chi fu commissario, non dimentichiamo che nella chiesacompare uno stemma (inquadrato, con un leone rampante e la testa di cervo) degli Ubaldini della Carda il che, innegabilmente ha la sua rilevanza. Lo studio prosegue dopo varie congetture di restauro (il primo già nel 1570) alla descrizione delle lunette Profeti e Sibille. Un'ultima importante notizia, tratta dallo studio delle Memorie di Raffaelli: segnala la data del 1531 apposta sul piedistallo destro dell'altare (la datazione al 1535 non è più da prendere in considerazione quindi) con la Sacra Famiglia e santi, oggi non più visibile perché l'intera mensa del medesimo è stata rifatta nel 1858-59. Consente di datare l'intero ciclo. Attraverso la testimonianza del Raffaelli, ebbene, troverebbe sostanziale conferma quanto è stato fin ora congetturato dagli studiosi con l'incoraggiamento a riconoscere nel pendant Cristo nudo/Madonna del Velo, le facce di uno stendardo documentato da una disposizione testamentaria di Durante Terzi di Casteldurante il17 luglio 1531 «Attraverso cui si destinano 25 fiorini "pro uno crucifixo et pro una bandiera pro ornamento dicte fraternitas". Riflettiamo dunque sul fatto che le due tele raffaellinesche, citate a lato della pala del Picchi a partire dal 1680, non è detto che non corrispondano alle facce della "bandiera", ovvero allo stendardo della Compagnia del Corpus Domini». L'identificazione pone tuttavia alcuni interrogativi. L'ottimo stato di conservazione delle tele porterebbe infatti escludere la progettazione e la finalità d'uso di tipo processionale. Probabilmente una decorazione fissa ad ornamento della confraternita.


Raffaellino per concludere questi anni marchigiani, dopo aver dipinto l'Altare dell'Assunzione della Vergine di Piobbico, aver lavorato all'Imperiale sino al settembre-ottobre 1530 e dipinto con la stessa equipes, poco dopo la Loggia del Giardino Segreto, rientrò a Sansepolcro per passare l'inverno 1530-31. Sappiamo infatti che tra l'11 novembre 1530 e il 1 maggio 1531 Raffaellino fu occupato nella gestione della biturgense Compagnia di S.Maria delle Grazie cui era iscritto. Quindi, verso l'estate del 1531, si diresse a Urbania per il Ciclo del Corpus Domini, una città questa in cui il pittore, abitante a pochi chilometri di distanza, deteneva all'epoca un'ottima fama. Il soggiorno pesarese come abbiamo detto è importantissimo perchè consentì agli artisti marchigiani di respirare quell'aria fresca raffaellesca che era "di moda" ma che ancora non era arrivata ovunque. L'incontro con Raffaellino fu proprio il tramite per la realizzazione della Madonna di Loreto e santi per Montegranale (Jesi, Pinacoteca e musei civici) e la Consegna delle chiavi per Sassoferrato (Urbino, Galleria nazionale delle Marche). Non solo per l'arte della pittura ma questo accadde anche per le ceramiche di Urbino, Urbania e Pesaro dove circolavano idee raffaellesche. Ci troviamo di fronte alla diffusione raffaellesca anche nel campo della ceramica che, rielaborata con un libero criterio antologico, pone l'ulteriore problema di capire fino a che punto le invenzioni dei ceramisti si discostino dai disegni eseguiti da Raffaellino per questo tipo di arte. Un disegno di paternità raffaellinesca identificato da Droghini (2001) «l'unico rinvenuto dei tanti realizzati dal biturgense per essere adattati alle ceramiche» è comunque rappresentato dallo Studio per una testa di guerriero antico conservato ad Urbania (Museo Civico) accompagnato dalla scritta «feci fine et bens». Lo studio sulla questione disegni per ceramiche di Droghini (2011) apre una nuova parentesi del lavoro del Nostro, una parentesi "graffa", un Raffaellino in grado di lavorare contemporaneamente in più posti e in più modi. Da segnalare per chiarezza e per chi volesse approfondire l'argomento che ha ancora molto da raccontare; l'ammirevole scritto di G.Mancini (1837) intitolato a Raffaellino, in cui afferma che il pittore biturgense, a quanto pare nel 1539 (scorrendo qualche anno in avanti dal punto della nostra attuale linea cronologica) eseguì disegni di cui «Fece copiosa raccolta Guid'Ubaldo II duca d'Urbino, onde con essi dipignere que'superbi vasi ch'egli, asceso nel 1538 al principato, andava regalando a tutti i più grandi potenti di Europa». Nello stesso saggio ci mette anche a conoscenza che Raffaellino formò «quel contratto di società col celebre plastico Giorgio Andreoli.. in conseguenza di che è pur fama, che le più rare dipinture che da detto Andreoli si eseguivano ne'celebri piatti ed altri vasi, a quella stagione si in onore, dello stesso Raffaellino disegnatore fossero». A sua volta G.Raffaelli (1846) scrive che mentre il Nostro era occupato nella decorazione del Corpus Domini di Urbania «l'Episcopi ideava nella paterna vaseria peregrine istorie in competenza di Raffaellino del Colle». Pochi anni dopo Filippo Ugolini (1859) ripeserà che Guidobaldo commissionò disegni per le ceramiche tanto «che tenne per molto tempo al suo servizio quel Raffaele dal Borgo, detto anche del Colle, che fu così sovrano maestro nell'arte del disegnare e dipingere». Il Corona infine (1885), collocando la cosa sotto la tradizione pesarese, riferisce che «pittori, quali Raffaellino del Colle e Battista Franco, disegnavano e dipingevano sui piatti e sui vasi, storie sacre, mitologiche e profane». La questione delle maioliche è chiara dal punto di vista della Sua presenza come disegnatore, quanto si debba ancora scoprire sull'apporto diretto con esecuzione pittorica su maiolica, non è chiaro. Sicuramente l'argomento (attività documentata tra il 1539- 1544) meriterà nel tempo studiosi appassionati; Per il momento sarà sufficiente ed esaustivo segnalare che fin ora sono due le ceramiche messe positivamente in rapporto con i disegni di Raffaellino. Una maiolica rappresentante Santa Chiara di proprietà privata riminese; l'altra la Pesca Miracolosa del Museo Civico di Brescia, attribuita alla cerchia di Nicola da Urbino, che la Ravanelli Guidotti ha creduto giustamente, rapportato alle prime prove marchigiane di Raffaellino. Il giorno che gli studi saranno in questo settore più avanzati, ci si accorgerà probabilmente che l'influenza del Nostro, in questo settore, è tutt'altro che marginale.

Riprendendo quindi i fili cronologici del nostro artista, dopo l'Imperiale, Raffaellino torna a Sansepolcro e nel 1533 sposa la biturgense Bartolini. A questo punto per la parte della critica che accetta ciò che Vasari scrive nelle Vite, andrebbe inserito il viaggio a Mantova con Giulio Romano per la decorazione di Palazzo tè. Il biografo aretino pone in questi anni l'affiancamento dei due, pur non ragguagliandoci sul periodo esatto della permanenza mantovana. Quello che sappiamo con certezza è che i lavori furono condotti tra il 1527 e il 1534, con un'interruzione tra il 1529 e il 1531. Se si accetta, supponendo una sua partecipazione dopo l'esperienza marchigiana, intorno al 1534, si può considerare la sua presenza nel periodo in cui cade la realizzazione della cosiddetta Stanza dei Giganti.

Concluso il ciclo nell'Oratorio del Corpus Domini di Urbania, si vedrà impegnato in più imprese pittoriche: come la Predella con la Pesca Miracolosa; la Madonna con il Bambino, S.Elisabetta e S.Giovannino; Quo Vadis? O quella per la chiesa di San Francesco a Citerna. La predella per la pala di San Pietro, acutamente attribuita a Raffaellino da Dal Poggetto (1980) e unita alla Consegna delle chiavi a San Pietro, che ha subito identiche vicende storiche, proviene dall'omonima chiesa di S.Pietro a Sassoferrato (AN), ed oggi conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche. La Consegna assegnata ad un altro pittore che portò con se a Sassoferrato (un luogo fuori dalla normale zona di attività raffaellinesca in territorio marchigiano), la predella come "firma" del biturgense. Giuliano Persciutti a Fabriano (distante pochi chilometri da Sassoferrato) godette di una discreta fama e in tal caso, proprio la possibile frequentazione avvenne tra il 1530-1532 ca. quando Raffaellino si trovò a Pesaro per la decorazione della Villa Imperiale. Può rappresentare un ottimo appiglio cronologico per datare l'opera. Droghini (2001) descrive così l'opera (poco conosciuta, attualmente nei depositi della GNM) nel suo catalogo 

«Iconograficamente la predella è densa di quelle invenzioni che Raffaellino apprese a Roma. La Pesca Miracolosa e il Quo Vadis?, delimitate da due colonnini cui sono riportati gli stemmi delle famiglie sassoferratesi dei Cavallini e dei Cozzi, sono infatti copia fedele delle stesse piccole scene dipine negli sguanci delle finestre della Stanza dell'Incendio di Borgo in Vaticano»

Al fondo raffaellesco e giuliesco si era sovrapposta qualche eco del primo manierismo anche attraverso l'amicizia con il Rosso; a ciò si aggiungeva quindi l'esperienza pesarese che lo aveva portato a contatto con un artista come il Genga; l'attuale permanenza in periferia lo renderà poi sensibile a sollecitazioni proprie di quell'ambiente. Infine sopraggiungerà la prolungata consuetudine con il Vasari. Il rapporto di Raffaellino con la sua cultura di origine non si presenta sempre entro questi termini, nell'ambito cioè di una fedeltà deferente e, in una certa misura, di tono accademico alle sue radici culturali. Anche se egli continuerà ad attingere, spesso in tono letterale, a modelli che richiamano la sua esperienza romana, il ritorno in provincia, che d'ora in avanti diventerà la sua residenza abituale, contribuirà a porre in modo diverso il rapporto fra lui e le fonti. Questa situazione sembra fedelmente rispecchiata dall'aspetto di un quadro singolare e poco noto, come la Resurrezione, o meglio Cristo risorto in gloria tra angeli di Citerna con i Santi Francesco d'Assisi e Michele Arcangelo (che schiaccia il demonio) con annessi Due pannelli con angeli recanti simboli della Passione. A partire dal Mancini (1832) questa prova citereste è stata concordemente attribuita a Raffaellino e Il M.Graziani (1897) menzionando lo stemma della famiglia Vitelli di Citerna (imparentata con i Vitelli di Città di Castello), nella cornice dell'altare, ci permette poi di intuire uno stretto rapporto con le prime committenze tifernati. Si osservi nel Cristo in Gloria la strana invenzione della teofania, in apparenza nascente da un curioso supporto ligneo poligonale, che dà all'insieme quali l'aspetto di un grande ostensorio e che 

«Può rammentare certe macchine sceniche da sacra rappresentazione - un riferimento che non dovrebbe sorprenderci se teniamo presente la collocazione del quadro in una chiesa francescana. Le figure hanno un aspetto cartaceo, con effetti di forme ritagliate, accentuazioni grafiche: sembra veramente ormai compiuto un passo decisivo verso una direzione in cui le grandi fonti da cui Raffaellino deriva vengono piegate da una forte tendenza a formalizzarle in senso astraente.. luci lattee nell'angelo con i chiodi, tipologia del volto in quello con la croce - possano essere spiegate con una improvvisa resipiscenza che orienta il gusto di Raffaellino verso modelli protomanieristici fiorentini, più precisamente pontormeschi» (Sapori 1976).

La chiesa di San Francesco a Citerna è un insediamento dei frati francescani che risale ai primi decenni del XIV secolo. In origine i frati si stabilirono fuori le mura della città e lì risiedettero fino al 1316, quando la loro sede fu distrutta da un incendio. I Minori conventuali trasferirono la loro sede all'interno di Citerna, fino a quando nel 1508 edificarono l'attuale chiesa con annesso convento e chiostro. La vicissitudini storiche della cittadina e dell'Ordine dei frati conventuali, non hanno alterato l'aspetto della chiesa che mantiene ancora le originarie linee rinascimentali e un cospicuo patrimonio d'arte. La chiesa è a croce latina e possiede nove altari, nel transetto destro è presente la tavola con Cristo in gloria con angeli e santi, opera del Nostro ed eseguita presumibilmente intorno al 1535 per adornare l'altare della famiglia Vitelli, la quale per lunghi anni governò Citerna che fu il luogo della morte del grande condottiero Alessandro Vitelli. Sull'altro transetto si trova l'Altare del Santissimo Crocifisso considerato più tardo rispetto al Cristo in gloria quantomeno alla metà degli anni '40 del 500, quando ormai il suo linguaggio formale (Raffaellino) aveva acquisito peculiarità che qui non si ritrovano. Al centro una croce lignea di fattura antichissima, arcaica (XIII secolo), proveniente da un altro edificio religioso e qui collocato davanti alla tavola dipinta da un allievo di Raffaellino del Colle. La tavola in questione con i Dolenti serve per ambientare il Cristo in croce, già attribuita a Raffaellino del Colle, in realtà del suo sconosciuto allievo, Anonimo di Fabriano (vedi nota 84). L'artista ha saputo "rinnovare" con espedienti ottici, la composizione, inglobando e coinvolgendo il Crocifisso nella composizione. Tra le tavole di Citerna e Fabriano intercorre un rapporto non solo cronologico ma anche stilistico assai stretto e la mano di questo artista, cosi simile e difficilmente distinguibile è stata allenata in una Citerna dove i due dovettero rimanere a lungo a stretto contatto, eseguendo lavori di ottimo livello. I caratteri morfologici delle figure, ad esempio, ricorrono identici in entrambi, soprattutto nel caso delle teste piuttosto voluminose, analoghe a quelle che lo stesso Raffaellino regalava ai personaggi dei propri dipinti innestandole però su corpi assai più imponenti; e inoltre il modo minuzioso di indagare il paesaggio appare in queste opere del tutto affine. Anche questo artista deve essersi accostato a Raffaellino nel momento dell'Imperiale, e in questo senso vorrei aprire una piccola parentesi che può far ragionare: un riferimento della critica alla pala fabrianese del Menzocchi può risultare interessante, in quanto è noto che tra il forlivese e il nostro pittore intercorse in quel momento un'accomunata comunanza di intenti formali e cromatici che li portò a uniformare il loro stile in un modo che talvolta alla critica p parso inestricabile. Per A.Nesi (2006) infatti la mano dello sconosciuto allievo di Raffaellino può essere riconosciuta in Menzocchi e nelle sue ricerche ha individuato la sua mano anche in un brano della nota predella che si accompagna alla Consegna delle chiavi di Sassoferrato. Ricrearono così una rappresentazione scenografica col tema della Crocifissione, con Maria, San Giovanni, San Francesco e San Girolamo, autografi i due pannelli laterali raffiguranti rispettivamente San Girolamo e San Francesco. In questa meravigliosa chiesa-museo troviamo infine una Sacra Famiglia con San Giovannino, "attribuito" a Raffaellino del Colle, un dipinto su tavola che ha sicuramente bisogno di studio approfondito. Attualmente si trova nella sacrestia di S.Francesco, assieme alla Madonna in terracotta policroma di Donatello. Si tratta di una copia della Sacra Famiglia con San Giovannino di Raffaello, detta "Madonna del Passeggio" (1516 ca. ora a Edimburgo, National Gallery).

Di Raffaellino in questi anni non si conoscono documentazioni che possono aiutarci a ricreare una valida biografia. Dopo il suo matrimonio nel 1533 non possediamo nulla fino al 1536, quando si sposta a Firenze per partecipare agli Apparati in onore di Carlo V. Prima di questo evento, in questi anni intermedi privi di documentazione sono però collocati dipinti di Raffaellino. Proseguendo, il pittore licenziati i dipinti di Citerna 1534-1535 dipinse anche un'Ultima Cena ad affresco per il Convento di Santa Maria del Sasso a Bibbiena. Ricordato e attribuito oltre che da Vasari (1568) dalla Giordano (1984) che cita inoltre due attestazioni di pagamento relative all'affresco: una del 2 ottobre 1534 per i lavori del "Cenacolo del refettorio" e l'altra del 2 settembre 1535 a favore del "depilatore del cenacolo" . Pur in mancanza di un nome, è tuttavia inequivocabile come l'opera appartenga al biturgense. Un segno raffaellinesco distintivo è la tipica fisionomia dei protagonisti. Raffaellino riguardo all'impostazione della scena, si ispira naturalmente ad idee raffaellesche, più precisamente l'Ultima Cena di Berlino (nella Gemaldegalerie) dipinta da Pietro Perugino per la smembrata Pala Tezi (Galleria Nazionale dell'Umbria): notare il Giuda seduto da solo nel proscenio, cui essi si rifecero. Droghini (2001) nella scheda di quest'opera individua un corrispettivo nel disegno di Raffaello conservato a Vienna (Albertina, inv. 195) e simile per la divisione a tre arcate è l'Ultima Cena riprodotta più volte in stampa, la cosiddetta "Cena dei piedi". Sempre in questi anni in Toscana troviamo altri due meravigliosi dipinti che con la già citata Assunzione e Incoronazione della Vergine al museo Civico di Sansepolcro, formano, completando la Sala Raffaellino del Colle. Parliamo del San Leone I Magno 1535 ca. e della Purificazione della Vergine 1535-36.

Il primo, il San Leone I Magno  è un affresco, attribuito per la prima volta a Raffaellino dal Vescovo Dioniso Bussotti nel 1640. Il dipinto è stato riferito anche a Cherubino Alberti (Lancisi, XVIII secolo); nel corso dell'Ottocento gli storici locali, pur formulando varie ipotesi, si sono orientati verso l'attribuzione al pittore o alla sua scuola (Coleschi 1886). Una prima e approfondita analisi dell'affresco si deve comunque a Droghini (2001) che ha effettuato anche una catalogazione sistematica delle opere del Nostro. Il San Leone I Magno proviene dal perduto oratorio di San Leo a Sansepolcro, dove viene ancora descritto dal Professore Ivano Ricci ( presbitero, storico e poeta italiano che ha dedicato studi a illustri personaggi del Rinascimento italiano) nel 1932. Gli storiografi locali, nel corso dell'Ottocento, avevano segnalato la presenza nell'edificio di altre pitture attribuite alla mano di Raffaellino e già perdute agli inizi del XIX secolo. L'importanza assunta dalla chiesa può essere spiegata alla luce della coeva istituzione della Diocesi di Sansepolcro (1520) sancita dalla bolla pontificia di Leone X, in seguito alla quale sono promosse le arti in genere e fioriscono nuove committenze. Si tratta di un'opera sulla cui cronologia gli studi non hanno trovato ancora una risposta unanime; la datazione oscilla tra gli anni Venti del secolo (Maetzke-Galoppi Nappini 1988; Dal Rosso a Santi di Tito 1994), il 1535 (Droghini 2001) e addirittura la fase terminale dell'attività di Raffaellino (Sapori 1976; Dal Poggetto 1983). Il soggetto rappresentato è in ogni caso collegato all'istituzione del vescovato, perchè vi è rappresentato Papa Leone I Magno, il pontefice che ha fermato l'esercito di Attila diretto verso Roma; una chiara ed esplicita allusione, quindi, alle vicende che in quel momento animavano Sansepolcro con l'intervento promosso dal Papa mediceo a favore dell'episcopato locale. La composizione appare vivida e giocata su tonalità chiare, mentre l'attenta tornitura della figura è esaltata dall'allargarsi della veste. Il pontefice è seduto, girato appena di tre quarti, con la mano destra benedicente e l'altra che trattiene un libro, inserito nella concavità di una nicchia conclusa dal tradizionale motivo a conchiglia. La base dell'edicola presenta cornici mistilinee che profilano una sottile fascia in finto marmo; al di sopra, su alti plinti, poggiano ai lati due robuste colonne. Da notare sono la posa contorta del personaggio e la ricercata disposizione del panneggio cromato di giallo intenso: una boutade manierista su un impianto caratterizzato dalla severità classica monumentale. L'opera documenta, ancora, l'attenta riflessione di Raffaellino sull'attività romana; sono tutte riprove che testimoniano le sue importanti frequentazioni nel cantiere della sala di Costantino. Ovviamente i modelli di Giulio Romano non lo abbandonarono mai, ebbero sempre (ed ogni volta ne abbiamo riprova) un interesse magnetico sull'artista.

Sansepolcro (AR), Museo Civico, Olio su tela: Purificazione della Vergine (1535-1536)
Sansepolcro (AR), Museo Civico, Olio su tela: Purificazione della Vergine (1535-1536)

L'altro dipinto citato, è la Purificazione della Vergine 1535-36. La sua attribuzione è stata piuttosto dibattuta. Precedentemente detta di "scuola fiorentina" dal Mancini 1832 è stata poi attribuita a Rosso Fiorentino da L.Coleschi nel 1886, sulla base di A.Lancisi. Mentre Odoardo Giglioli (1921) e un altro esempio, Ivano Ricci (1932) pensano a un pittore locale della metà del XVI o degli inizi del XVII secolo. Nel 1981 A.M.Maetzke, definendola «chiaramente legata ai modi di Raffaellino del Colle e del Vasari» la attribuisce a Giovan Battista Cugni con un punto interrogativo. La tavola fu restituita a Raffaellino grazie all'importante scoperta archivistica del Franklin (1998); la registrazione di un pagamento di ventisette scudi effettuato da Guidobaldo e Bartolomeo di Anichino De'Roberti. Nel 1583 il dipinto figura nella nuova chiesa di Santa Maria Maddalena dei Minori Osservanti, apice decorativo del nuovo spazio sacro (soppressa), dove la vede Monsignor Peruzzi durante la visita apostolica; nell'elenco dettagliato di fine settecento effettuato da Annibale Lancisi (XVIII secolo) si legge della tela conservata nella sagrestia dove la registra anche Antonio Benci (1834) il quale ricorda l'intenzione di vendere il quadro «per provvedere ai bisogni del convento». Lorenzo Coleschi (1886), invece, elenca l'opera tra quelle conservate nella raccolta d'arte comunale biturgense, presso cui conferì in seguito alla soppressione post-unitaria delle corporazioni religiose. La committenza dell'opera, in una città ancora molto legata alla tradizione, condiziona ancora in qualche modo Raffaellino del Colle, che imposta la scena recuperando i tradizionali schemi rinascimentali, rivisitati alla luce di una nuova sensibilità pittorica e visiva; orientata verso il gusto manierista, essa tende alla riduzione dello spazio attorno alle figure, con il consueto effetto di restringimento. Tipico però del clima della Controriforma il bisogno di suggerire emozioni e simboli capaci di condurre lo spettatore sulla retta via suggerita dal Sant'Uffizio. Una morale rispettosa per le autorità religiose. Il nostro artista propone un altro dei suoi astuti assemblages, ovviamente anche di idee romane vedremo dopo perchè. A dieci anni dall'Assunzione (dipinta per la stessa chiesa), effettua una sintesi delle varie esperienze; il corpo di Gesù ricorda quello della Deposizione Baglioni (notare la testa che cade all'indietro, il braccio penzolante e le gambe piegate), al centro della tavola campeggia Giuseppe con la sua folta barba che assorto abbassa lo sguardo verso il Bambino, la sua posa è simile a quella della Santa Elisabetta nella giuliesca Madonna Spinola; a lato Maria, leggermente reclina sul fanciullo, è colta nell'atto di congiungere le mani e in lei riecheggia invece la protagonista della Sacra Famiglia di Francesco I. Quest'ultimo prototipo più volte visto in Raffaellino (per intero negli affreschi del Corpus Domini di Urbania del 1531). L'opera venne prestata dal Museo Civico ad Urbino (2019) nella scheda di catalogo p.72, cosi si aggiunge 

«il celebre quadro parigino è inoltre basilare per spiegare l'aria di mestizia assunta da Maria e, contestualmente, riflettere sulla validità o meno di pareri (cfr.Nesi 2004) che hanno riconosciuto, "nella figura dolcemente assorta della vergine" un influsso della Purificazione della Vergine (Cesena, abbazia di Santa Maria del Monte) di Francesco Menzocchi del 1533-1534». 

Annullata ogni urgenza architettonica sullo sfondo, le figure divengono uniche protagoniste della scena. Restaurata negli anni Settanta del Novecento, essa presentava un imbruttimento della superficie che non ne consentiva una corretta lettura. Un recente restauro (2016-2017) ha rimesso in luce la qualità e la bellezza dell'opera che permette di apprezzare nuovamente dettagli elegantissimi (nella veste del sacerdote Simeone). La sensibilità nel trattamento dei tessuti, alcuni leggeri ed altri molto pesanti, così come la vivace scala cromatica. Evidente come il disegno piuttosto marcato delle figure e l'effetto coloristico di insieme risentano ancora una volta, dell'esperienze romane del pittore. Esperienza che come abbiamo visto non lo lascia mai. La miglior lettura dell'opera dopo questo restauro ha dato modo agli studiosi di valutare e affermare con sicurezza la paternità totale dell'opera (nel 2001 M.Droghini aveva proposto l'intervento di un collaboratore per la figura con le due colombe a sinistra, lo stesso nel 2014 fece un parallelo tra questa e la Maddalena raffigurata nella prima opera pervenutaci del maestro urbinate Federico Barocci: La Santa Cecilia e Santi nel Duomo di Urbino). Il dipinto sembra poi aver offerto spunti a G.Vasari, i cui tipi fisionomici ricordano quelli di Simeone e di San Giuseppe. Raffaellino del Colle nell'aprile del 1536, in occasione dell'arrivo in città di Carlo V, si reca a Firenze per aiutare Vasari nella realizzazione di alcuni apparati trionfali insieme al conterraneo e allievo Cristofano Gherardi detto il Doceno; in contatto con le nuove ondate manieristiche presenti nella città toscana, oltreché col recupero del "vecchio" primo manierismo pontormesco. Lo stesso biografo aretino nella Vita del Doceno, ci racconta come all'arrivo dell'imperatore e di sua figlia Margherita a Firenze, si fossero mobilitati i preparativi di accoglienza, ordinati dal duca Alessandro de'Medici. Vasari partecipa quindi alla realizzazione degli Apparati trionfali, dell'ornamento della porta a S. Pietro Gattolini, della facciata in testa via Maggio a S. Felice in piazza e del «Frontone che si fece sopra la porta di S. Maria del Fiore» che purtroppo si annoverano nella lista degli interventi perduti. 

«Et oltre ciò d'uno stendardo di drappo per il castello alto braccia 15 e lungo 40, nella doratura del quale andorono 50 migliaia di pezzi d'oro. Ora, parendo ai pittori fiorentini et altri che in questo apparato s'adoperavano, che esso Vasari fusse in troppo favore del duca Alessandro, per farlo rimanere con vergogna nella parte che gli toccava di quello apparato, grande nel vero e faticosa, fecero di maniera che non si poté servire d'alcun maestro di mazzonerie, né di giovani o d'altri che gl'aiutassero in alcuna cosa, di quelli che erano nella città. Di che accortosi il Vasari, mandò per Cristofano, Raffaello dal Colle e per Stefano Veltroni dal Monte San Savino suo parente, e con il costoro aiuto e d'altri pittori d'Arezzo e d'altri luoghi, condusse le sopra dette opere». 

 È difficile valutare quanto sia durato il soggiorno fiorentino, ma Raffaellino nel marzo 1537, essendo elencato a aSansepolcro come priore della Compagnia delle Grazie, probabilmente si trovò nella sua città. Supponendo che in tale periodo potè lavorare agli stalli del coro della Cattedrale di Città di Castello, il 7 giugno 1539 i monaci olivetani di S.Pietro a Gubbio pagano il pittore per un lavoro non specificato ma come si vedrà sicuramente corrispondente all'affresco con Storie di S.Placido e S. Mauro e con la tavola dell'Adorazione dei Pastori. Se presumibilmente in questi anni Raffaellino fu attratto da un particolare modo di dipingere che, utilizzato nelle urbinati Madonna del Soccorso e Madonna del Metauro, è simile alla pittura su ceramica. Raffaellino inizia una nuova fase lavorativa che porterà alla realizzazione di esempi pittorici di grande compostezza e culminanti con la firma, l'unica nella sua carriera, lasciata nella Sacra Conversazione di Sant'Angelo in Vado 1543.

Per arrivare al 1540, concludendo il capitolo con l'arrivo di Raffaellino a Gubbio, si devono osservare ancora due opere marchigiane. Le ultime due che il pittore dipinse in - (soggiornandovi) questa regione, l'ultima del 1543 fu forse trasportata da Sansepolcro, sicuramente non senza fatica. In questi anni di passaggio come abbiamo già ricordato, un documento afferma che Raffaellino nel 1539 dipinse a Urbino un «portico» per Vittoria Farnese, consorte di Guidobaldo II. Dell'opera citata (forse una serie di affreschi?) È andata perduta anche la memoria. La prima opera che per proseguire vorrei esporre:

Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, olio su tavola: Madonna del Soccorso con i Santi Giovanni Battista e Cristoforo. (1539 ca.)
Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, olio su tavola: Madonna del Soccorso con i Santi Giovanni Battista e Cristoforo. (1539 ca.)

La Madonna del Soccorso  e i santi Giovanni Battista e Cristoforo opera elegantissima di Urbino, l'unica superstite nella capitale del Ducato restituita da P.Dal Poggetto (1981). Un dipinto di grande poesia con quel fiore alto tra le due colonne a rompere l'ombra dell'esedra, eseguito per la chiesa urbinate dei Servi (della Santissima Annunziata) dove rimase fino al 1846 ca. Nelle collezioni statali della Galleria Nazionale delle Marche dal 1864 e restituita in deposito alla chiesa dei Servi nel 1965, è rientrata in Palazzo Ducale nel 1981. Droghini (2001) nella sua scheda di catalogo ricorda che fu una guida anonima delle chiese di Urbino compilata nei primi anni del '700 a citare per la prima volta l'opera e che la sua attribuzione a Raffaellino del Colle risulta concorde, ad eccezione del Dolci (1775) che propone il nome di Raffaello Schiaminossi. La datazione della tavola, così come avviene per la cosiddetta Madonna del Metauro, pone però dei problemi. Il biturgense si presenta infatti con uno stile che, caratterizzato da una evidente vena di pittoricismo, è totalmente indipendente rispetto alla sua normale produzione pittorica. Una soluzione cronologica potrebbe essere comunque individuata dalla critica, nella possibilità che Raffaellino, nel distribuire la corposa materia pittorica sulla tavola, abbia voluto creare effetti simili alla pittura su ceramica. Si guardino così ad esempio i forti passaggi chiaroscurali nelle pieghe della veste di S. Giovanni Battista (trattare non con l'uso del chiaroscuro graduato ma con masse di colore giustapposte di tre tonalità) e il timbro squillante del colore che ricorda le vivaci tonalità della ceramica prodotta nel '500 dai laboratori del Ducato di Urbino (ricordare che il pittore in questi anni fu incaricato da Guidobaldo II della Rovere di fornire i disegni per le ceramiche granducali). Come dicevo, comunque questo aspetto avrebbe bisogno di più tempo per essere studiato e approfondito. L'opera è caratterizzata da un'impostazione classica in cui i due santi si sovrappongono alle colonne tortili che richiamano quelle presenti nei cartoni per gli arazzi di Raffaello. L'opera inoltre mostra una serie di intenti poetici: i fiori che sbocciano altissimi dal bastone di Cristoforo; il "lanciafiamme" tenuto in mano dalla Vergine del Soccorso, che propaga fiammelle e scintille di un rosso vivo ed intenso; le ali del Diavolo illeggiadrito ma schiacciato a terra, che sembrano due foglie di vite rossa in autunno; l'eleganza della dama inginocchiata in preghiera, i cui abiti sono resi con pieghe fittissime creando un effetto della stoffa quasi bagnato. Il suo volto ricorda da vicino alcuni dei volti muliebri delle figure della Loggia di Psiche (nei pennacchi), in cui pure come abbiamo visto all'inizio di questo percorso, è stata ipotizzata la sua presenza come esecutore. E ancora: nel manto che svolazza intorno alle focose immagini del Padre Eterno, tante volte replicate con varianti, nelle sue pale chiesastiche (si ricordino quelli fin ora visti: nella parte alta dell'Annunciazione di Città di Castello ed anche nella seconda Annunciazione che incontreremo più avanti, quelli della lunetta di Lamoli e dell'Immacolata di Mercatello, quelli dell'Annunciazione di Sant'Angelo in Vado e della lunetta di San Lorenzo a Sansepolcro..), Raffaellino sembra ricordare il manto dietro la testa e i capelli della "Galatea" raffaellesca. L'importazione generale, tralasciando i raffaellismi di sottofondo, deriva infatti dalla Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto (1517, conservato agli Uffizi di Firenze).

La seconda opera, tra il 1539 e il 1540 è intitolata: la Madonna del Metauro , di ignota provenienza. La troviamo nella collezione Antonelli di Fano (Pesaro) e poi Volponi di Urbino. Assegnata per la prima volta a Raffaellino dal Fontana (1983) si riconosce in esso in un modo di dipingere identico a quello della Madonna del Soccorso cui si rimanda. Nella tavola è raffigurata la Madonna, con in braccio il piccolo Gesù, immersa in un paesaggio in cui scorre il fiume Metauro e sul cui sfondo si vedono monti innevati. Questo ci rimanda necessariamente alle Madonne raffaellesche rappresentate in aperta campagna. In particolare, sulla sinistra, sono forse riconoscibili il borgo di Peglio (PU) e il Barco Ducale di Urbania. Questa ambientazione testimonia l'amore del pittore per la natura e costituisce una delle sue tipiche descrizioni, attente e dettagliate, di alberi, fiori ed erbe: tra queste si possono individuare l'alloro a tre bacche, l'anemone a trifoglio, il luppolo amaro e il rovo. In alto sono inoltre rappresentati due angeli, in atto di incoronare la Vergine, che fanno piovere fiorellini di campo, tipici di Raffaellino sia gli angioletti che il brano erbaceo sopra descritto, in primo piano. Maria osserva pensosa la "rosellina" che tiene delicatamente nella mano destra, presagio del destino di morte del Figlio. La critica ha dubbi sulla totale attribuzione al biturgense del dipinto, si nota un aiuto nelle nuvole (queste assomigliano a quelle situate sotto gli angeli della parasta sinistra del Cristo in Gloria di Citerna Imm.23)come in altri particolari.



Il "Ponte" che ci fa entrare nella fase più maturità del nostro artista è proprio il grande affresco, concordemente attribuito a Raffaellino a partire dal Lanzi (1808), con le Storie Olivetane 1539-40 di Gubbio.L'affresco costituisce, assieme alla tavola con l'Adorazione dei Pastori, che vedere poco più avanti, la decorazione pittorica della cappella di S.Benedetto a San Pietro. Le pitture furono commissionate dalla famiglia Nuti che, nel 1524 decise di decorare questa cappella (a quel tempo appartenente a Benedetto Nuti il quale, in pieno accordo con i monaci olivetani di S. Pietro, ebbe modo di intitolarla a S.Benedetto suo protettore). Per quanto riguarda l'affresco esso è suddiviso in due fasce orizzontali sottostanti un fregio a grottesche. In quella inferiore sono rappresentate le scene di S.Mauro offerto dal padre Eutichio a S.Benedetto (a destra) e di S.Placido offerto dal padre Tertullo a S.Benedetto (a sinistra); mentre nella superiore è raffigurato S.Benedetto in Gloria tra due angeli, due beati e due santi benedettini, S. Maria Maddalena e S. Caterina d'Alessandria. Oltre che per l'ampiezza, l'opera è importante perchè conserva una delle poche date lasciate da Raffaellino nella sua attività. Il lavoro è infatti completato con la scritta «PARENS ADYTUM BENEDICTI EX NOMINE DIVI CONDECORAT FUNDUS THUREA DONA PRECES/A.D.M.CCCCC.XXXX». Questa datazione corrisponde alla documentazione presentata da Ettore Sannipoli nel 1992 e, in collaborazione con Fabrizio Croce, nel 2000. M.Droghini nella scheda di catalogo dedicata all'opera riporta che: Nel primo caso abbiamo una nota del 7 giugno 1539 (ASG, Fondo Corporazioni Religiose Soppresse) dal quale si ha notizia che, a «Raffaelle pintore et compagni del Borcho», sono pagati sei fiorini per un lavoro non specificato ma sicuramente corrispondente ai lavori nella cappella di S.Benedetto (affreschi e tavola). Nel secondo caso si tratta invece di un documento autografo di Raffaellino (conservato sempre nell'Archivio di Stato a Gubbio) in cui sono riportati i pagamenti (avvenuti più volte, lo studioso riferisce dal 26 ottobre 1539 all'11 giugno 1540) per «Satisfamento della fatica a premio de la Capella» (Cappella di S.Benedetto). Per quanto riguarda l'iconografia nella fascia superiore è chiaramente ripreso l'affresco, commissionato dall'ordine benedettino e dipinto da Raffaello Sanzio, della Trinità e santi (Perugia monastero di S.Severo). Anche se non tutto l'affresco è assegnabile a Raffaellino che, per la sua esecuzione, dovette impiegare degli aiuti, (ciò è confermato sia dal documento del 7 giugno 1539 e sia dalla probabile rappresentazione che il biturgense, nelle estremità esterne della fascia inferiore, fa di se stesso invecchiato negli anni - il cavaliere anziano nell'estrema sinistra - e della sua bottega itinerante), la sua mano è particolarmente riconoscibile nella maggior parte dei volti protagonisti e nei paesaggi della fascia inferiore che rimandano a quelli della pesarese Sala del Giuramento di Sermide e Sacra Famiglia affrescata a Urbania.

Gubbio (PG), S.Pietro, Affreesco: Storie olivetane di S.Placido e S.Mauro. (1539-1540)
Gubbio (PG), S.Pietro, Affreesco: Storie olivetane di S.Placido e S.Mauro. (1539-1540)

L'Adorazione dei pastori a partire dal Lanzi (1808) è stata attribuita a Raffaellino. Insieme agli affreschi olivetani ricordati precedentemente, ai quali rimando anche per le notizie storiche e documentarie, costituisce la decorazione pittorica della cappella intitolata a S.Benedetto. Sicuramente, anche se non è chiaramente datata come gli affreschi, fu realizzata contemporaneamente alle pitture parietali o a poca distanza da queste. Ciò si può affermare osservando la compostezza dell'immagine tipica del periodo in questione - si guardi ad esempio l'appena successiva Sacra Conversazione di Cagli - e, importante, perchè è riconoscibile un'ideazione unitaria che sembra coinvolgere tavola e fascia inferiore degli affreschi. Raffaellino infatti, poiché in questa zona affrescata compaiono dei cavalieri impostati sull'iconografia delle "Adorazioni dei Magi", potrebbe aver voluto unificare affreschi e tavola (una "Adorazione" appunto) realizzando un'altra delle sue elaborate composizioni. È evidente poi come le figure dipinte sulla parete della nicchia e quelle sulla tavola si presentino con dimensioni simili e come i paesaggi di entrambe le rappresentazioni siano tagliati allo stesso punto. Per quanto riguarda l'iconografia si deve infine rammentare come l'idea generale del dipinto provenga da un disegno di Raffaello - archetipo di tutte le "Adorazioni" di Raffaellino - conservato a Oxford (Ashmolean Museum, inv. P. II. 564) che avevo già citato in altra occasione. 

Gubbio (PG), S.Pietro, Olio su tavola: Adorazione dei pastori.  (1539-1540)
Gubbio (PG), S.Pietro, Olio su tavola: Adorazione dei pastori. (1539-1540)



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