Con il bagaglio fiorentino, l'ultimo Raffaellino

28.02.2021

Partito definitivamente da Firenze, Raffaellino ritornò poi a Sansepolcro impreziosito da un nuovo stimolo visivo derivato dall'arte aulica della corte medicea. Questo è riferito soprattutto alla maggiore ricchezza dell'immagine, al fattore colore (caratterizzato ora, differenziandosi dai toni squillanti utilizzati fin ora, da un cromatismo smorzato) ed all'accurata e raffinata distribuzione della materia pittorica la quale, anche se tipica dello stile di Raffaellino, sarà sottolineata e praticata all'incirca fino alla metà del sesto decennio. Raffaellino (sorvolando l'ipotetico viaggio a Roma con il nipote Giuseppe nel 1551) avendo accresciuto ancora una volta, grazie ai suoi viaggi, il suo "bagaglio" pittorico e culturale, tornato in patria si dedicherà principalmente a committenze in zone limitrofe. Arriva così la magnifica Deposizione proveniente dalla chiesa della Madonna delle Grazie a Città di Castello che, originariamente unita alla predella con scene cristologiche, eseguita da un collaboratore, forma uno dei pezzi più importanti e significativi della collezione di Raffaellino. 

Città di Castello (PG), Pinacoteca Comunale, olio su tavola: Altare della Deposizione di cui, Deposizione della Croce (tavola centrale), sei angeli con gli strumenti della Passione e Due teste di cherubini. (1552 ca.)
Città di Castello (PG), Pinacoteca Comunale, olio su tavola: Altare della Deposizione di cui, Deposizione della Croce (tavola centrale), sei angeli con gli strumenti della Passione e Due teste di cherubini. (1552 ca.)


Assegnata per la prima volta al biturgense dal Conti (1627), è citata dal Gamurrini nel 1673 con l'attribuzione a Raffaellino da Reggio. Quest'ultimo studioso inoltre, come committente del dipinto, menziona la famiglia Albizini di Città di Castello. Tale notizia ripresa dal Certini (1728-1736) che riporta l'opera a Raffaellino del Colle, deve essere unita al Diario di Berto Alberti attraverso il quale possiamo individuare l'anno approssimativo di esecuzione e il nome preciso del committente. Berto infatti scrive «Meser Bartolomeo Albizini di Città di Castello è dato a dì 26 di genaro 1552 sc. 10 per conto che li fè una Capella in giesa di Santa Maria dè Servi (della Madonna delle Grazie) di Castello: òne aute, dato fine in questo in primo d'aprile, sc. 28: che in tutto resta a dare 2 sc.; portò in ditto dì il lavoro, sc. 80». Bartolomeo quindi dovette essere il committente poiché in questa chiesa non vi è altro altare oltre questo, come riferito dal Certini, appartenente alla famiglia Albizini. La datazione della Deposizione e degli altri pannelli, va quindi risistemata e collocata nel 1552 ca., subito dopo la conclusione del lungo soggiorno fiorentino terminato nell'autunno 1551. Proprio per tale motivo è possibile stabilire un preciso confronto con la Deposizione che come abbiamo già ricordato, Salviati dipinse per S.Croce. Le strutture della parte superiore sono pressoché identiche: la soluzione di una scala inclinata e una dritta e, a partire dalla parte sinistra, vi sono quattro figure (l'uomo sulla scala inclinata, quello che regge il braccio sinistro del Cristo, quello sulla scala dritta e quello sotto il Redentore) che sembrano provenire da un unico progetto. A questo punto, può sorgere il dubbio su quale delle due Deposizioni sia stata dipinta per prima; nella prova tifernate fa notare lo studioso Droghini (2001), vi è un'inedita ricchezza orientaleggiante tipica del Salviati che, tuttavia, può trovare un'anticipazione negli esempi raffaellineschi e giulieschi come la Madonna della Seggiola (Fi, Pitti), La Fornarina (Ro, Galleria Nazionale d'Arte Antica) o la Donna allo Specchio (Mosca, Puskin). Sempre per quanto riguarda l'iconografia, nel gruppo in primo piano delle dolenti, Raffaellino utilizza un modulo arcaico a lui caro e notato altre volte, tipico delle crocifissioni medioevali. Bisogna inoltre far presente che la composizione è molto simile anche ad un altro dipinto, mi riferisco alla Deposizione della croce dipinta da Giorgio Vasari per l'Archicenobio di Camaldoli. In questi anni Raffaellino del Colle oltre a questa formidabile prova pittorica, dipinse spesso per l'alta valle del Tevere - Città di Castello. Meno per Sansepolcro che non offre grandi prove raffaellinesche ma menzionandole troviamo: la cornice di S.Chiara (1553), la Madonna delle Grazie dell'omonima chiesa (1555), la Resurrezione di Cristo dell'Oratorio di San Rocco (1559 ca.), successivamente entrando negli anni '60, sempre per Sansepolcro la Lunetta con Padre Eterno e Angeli di S.Antonio Abate (1561-62). La Cornice con S.Ludovico da Tolosa, S.Elisabetta d'Ungheria, il Padre Eterno, l'Angelo annunziante, l'Annunziata e S.Giuseppe nell'ex edificio sacro, chiesa intitolata a Santa Chiara in seguito alla cessione alle monache Clarisse 1555 (un tempo chiesa del convento di Sant'Agostino) a Sansepolcro che si trova nella piazza omonima, oggi trasformato in un elegante auditorium. Fu realizzata per inquadrare una scultura lignea rappresentante la Madonna con il Bambino. Poco ricordata dagli storici è stata rivalorizzata e attribuita a Raffaellino dalla Giannotti (1995). Purtroppo oggi si può riconoscere con chiarezza la mano di Raffaellino solo nella S.Elisabetta, nel S.Ludovico e nell'Annunziata (ripresa poi a Sant'Angelo in vado nell'Annunciazione di San Filippo 1559), Cristoforo Gherardi potrebbe essersi occupato del resto essendo pittore di grottesche e collaboratore di Raffaellino.Per la datazione dobbiamo affidarci all'artista biturgense Berto Alberti che, in un ricordo del duo Diario, scrive: «A dì 26 d'aprile (1553) feci la Capella alla Sora Susanna di Santa Chiara, alla Madonna di rilievo, in giesa loro for da la porta di Santo Nicolò, montò 10 scudi». Anche se l'Alberti parla di "cappella" sicuramente il lavoro descritto corrisponde a questa cornice, una "cappella in minuatura" che avrebbe dovuto delimitare la nicchia con la ricordata statua lignea. Lo stile infine, confermando il 1553 come anno di esecuzione, è perfettamente stimabile dopo l'Altare della Deposizione di Città di Castello.Proseguendo incontriamo La Madonna delle Grazie nell'omonima chiesa di Sansepolcro, una piccola chiesa poco conosciuta entro le (seconde) mura di Sansepolcro. 

S.Sepolcro (AR), chiesa di S.Maria delle Grazie, olio su tavola: Madonna delle Grazie.  (1555)
S.Sepolcro (AR), chiesa di S.Maria delle Grazie, olio su tavola: Madonna delle Grazie. (1555)

Proseguendo da questa, pochi metri e si entra in Via Aggiunti, mantenendo la destra - si trova il Museo Civico con tre opere di Raffaellino (in breve: Incoronazione, Purificazione e S.Leone Magno), dritto - si entra nell'arco della Pesa che porta al Duomo contenete la Lunetta di Raffaellino e la prima Resurrezione. Proseguendo invece sulla sinistra - si troverà la chiesa di S.Rocco con la seconda Resurrezione che vedremo poco avanti. Possiamo quindi dire che questa "chiesina" fa da snodo per il percorso del nostro artista. Entrando, in un'alta posizione suggestiva sopra l'altare maggiore, non si può non notare la tavola di Raffaellino, per poterla datare bisogna ricorrere di nuovo al Diario di Berto Alberti in cui tra i ricordi del 21 giugno 1555 e del 7 settembre 1556, è scritto «Giuan Batista di Nicola Miliurati priore di la Compagnia di le Gratie one dato sc. 5 d'oro per conto de farli una taula a l'altare grande, con uno ornamento in mezo: me lo fè dare a Rafaelle dal Colle, pittore, per dipignare: sc. 5». In un registro della Compagnia delle Grazie alla data del 25 agosto 1555 è inoltre segnato «..far uno adornamento allo altare magiore di la nostra chiesa et li collocare la figura et devotione di la nostra santa Maria Madre di Gratie..». Concordemente attribuito a Raffaellino a partire dal Farulli (1714), questo dipinto è stato giustamente unito dal Casciu (1994) al nuovo spirito accademico e aulico caratterizzato da un'esecuzione pittorica accurata e sottile, probabilmente appreso a Firenze. M.Droghini (2016) dedica uno studio a questa chiesa approfondendo le opere al suo interno e i loro processi creativi. Lo studioso in breve ci invita ad osservare il crescente processo di abbellimento/rinnovamento estetico maturato nell'ambito della chiesa di S.Maria delle Grazie; in particolare vorrei focalizzarmi su Cristoforo Renzetti, un autore sostanzialmente sconosciuto nel campo della pittura biturgense. Il precedente allestimento dell'altare era il suo e alla sua morte Raffaellino, capace di valorizzare straordinariamente il luogo più rappresentativo della compagnia, ebbe il nuovo incarico. Fu pressoché naturale sostituire la prova di Cristoforo con la Madonna delle Grazie giunta sino a noi che, puntualizziamolo, si presenta di dimensioni contenute proporzionate alla grandezza del gonfalone commissionato nel 1518. Lo studioso porta alla valutazione che Raffaellino, sotto il profilo figurativo, impostò il suo lavoro sull'immagine primo cinquecentesca proposta da Cristoforo (prima icona dedicata alla Madonna); mantenne vivo il dialogo con quanto prodotto dal precedente artista, sia facendolo rientrare in un recupero di arcaismi compositivi culminato nella Madonna con il Bambino in Gloria e santi di Perugia (1563), sia traducendolo in una probabilmente migliorata focalizzazione della Madonna in primo piano (restyling) da cui deriva una Vergine in ginocchio strutturatasi, a livello d'impianto, sul protagonista della giuliesca Lapidazione/Martirio di Santo Stefano. In questi stessi anni Raffaellino ci offre una deliziosa tavoletta della Casa di Raffaello, una prova sicuramente destinata alla devozione domestica: la Sacra Famiglia con S.Elisabetta, S.Giovannino e angeli di Urbino (1551-1555). 

Urbino, Casa Raffaello, olio su tavola: Sacra Famiglia con S.Elisabetta, S.Giovannino e angeli. (1551-1555)
Urbino, Casa Raffaello, olio su tavola: Sacra Famiglia con S.Elisabetta, S.Giovannino e angeli. (1551-1555)

L'opera in esame proviene dall'ex monastero urbinate di Santa Chiara, uno degli insediamenti religiosi più importanti di Urbino, anche per il suo rapporto con la famigli ducale. Probabilmente da identificare come suggerisce Walter Fontana (1983) nell'opera «Sacra Famiglia consimile a quella di S.Andrea Apostolo, d'incognito autore» dell'ignoto autore ricordata da G.Battista Pericoli (1846) nello stesso edificio. Anche se non abbiamo immagini del quadro che dichiarino la sua presenza nel monastero, il discorso del Fontana può essere avvallato. Confrontando il nostro dipinto con il quadro segnalato in Sant'Andrea, oggi disperso ma noto attraverso una fotografia Scatassa (1910), si rilevano infatti molte affinità di tipo compositivo. Confiscata in seguito alla soppressione postunitaria delle corporazioni religiose, l'opera è confluita in Santa Chiara nella raccolta dell'Istituto di Belle Arti delle Marche di Urbino, dove viene segnalata da Pompeo Gherardi (1875) come una «Madonna col Bambino. Pensiero di Raffaello eseguito con molto buon garbo da qualche suo discepolo». Spostata successivamente nella Galleria Nazionale delle Marche (cfr.Fontana 1983), dal 1962 è in deposito presso la Casa Raffaello. Non è dato a sapere come il dipinto sia entrato nel monastero di Santa Chiara Droghini (2019) afferma che si potrebbe pensare alla dote di un clarissa o a un dono dei Duchi di Urbino, sulla falsariga di quanto è ricordato in un post scritto del 1552, indirizzato da Guidobaldo II della Rovere all'ambasciatore roveresco a Venezia Giovan Giacomo Leonardi, in cui si richiede un quadro della Madonna col Bambino da offrire in dono a una monaca. L'attribuzione parzialmente accettata dalla critica è stata rifiutata dal Poggetto (1985 e 2001), il quale, pur notando «una certa qualità delle figure della Madonna e San Giuseppe» afferma che «troppo è il divario nelle altre parti». Tuttavia afferma Droghini che intende inserirla nel catalogo, anche se alcune zone come "il grugno" di S.Elisabetta, così definito Dal Poggetto, sembrano meno riuscite, «la piena autografia raffaellinesca, qui condizionata dal formato ridotto (necessariamente soggetto ad acutizzare gli espressionismi), emerge con chiarezza. È anzi possibile considerare l'opera una delle prove più squisite del catalogo del biturgense, come dimostrano il disegno delicato e preciso, la stesura pittorica liscia e accurata, la plasticità delle forme, la resa minuziosa dei particolari..». Sul piano iconografico il pittore si affida alle idee di Raffaello, come la Sacra Famiglia di Francesco I del Louvre che in pia occasioni abbiamo nominato, da cui sono mutuate le figure di San Giuseppe e dei due angeli; a questo deve poi aggiungersi un disegno dell'Urbinate conservato a Londra (Windsor Castle, Royal Library, inv. 12738), molto vicino al suddetto quadro parigino nell'ideazione delle figure in primo piano. Vorrei chiudere questa opera con un'altra attribuita (The Holy Family with Saint Elizabeth and the Infant Saint John the Baptist oil on panel) a Raffaellino, battuta all'asta Christie's il 10 ottobre 2001, lotto n.25; di provenienza: Anon. Sale, Sotheby's, London, 6 December 1995, lot 164, lo storico dell'arte Everett Fahy «In a fax dated 19 July 1996, Mr. Everett Fahy confirmed the attribution to the artist and suggested a dating for the present work to the 1550s».

Sotheby's, London, Sacra Famiglia- The Holy Family with Saint Elizabeth and the Infant Saint John the Baptist
Sotheby's, London, Sacra Famiglia- The Holy Family with Saint Elizabeth and the Infant Saint John the Baptist

Si deve fare ora una piccola parentesi, spostandosi ad Assisi e soffermandoci sull'anno 1556; includendo i lavori attribuiti, anche se non concordemente dalla critica, a Raffaellino. In sintesi l'attività assisiate, costituisce un argomento abbastanza complesso che non può essere trattato in questa sede. In breve, si concentra intorno a delle opere eseguite da un maestro Raffaello tra cui la Volta Pinta, tre opere assegnabili: La Volta Pinta del Palazzo del Governatore, gli sportelli con il Battesimo Cristo nel Museo della cattedrale di S.Rufino e la Salma di S.Rufino affrescata nel sarcofago che conteneva le spoglie di questo santo. Nell'articolo "La Volta Pinta", E.Genovesi (2016) pur essendo consapevole di basarsi su una testimonianza di oltre un secolofa Historia della città di Assisi (1668) (in cui Egidi racconta che Marcello Tuti fece dipingere la voltaa grottesche, esseri mitologici, animali esotici, storie di eroi indicando «da uno dei più famosi Pittori de quei tempi»), della mancata presenza di memorie e descrizioni contemporanee o di un contratto di allocazione né tantomeno di disegni preparatori, afferma che un impianto indiziario induce comunque a pensare al Nostro come l'autore (pur non specificando mai il cognome, sempre e solo il nome). 

Assisi (PG), Palazzo del Governatore, Affresco: Volta Pinta. (1556)
Assisi (PG), Palazzo del Governatore, Affresco: Volta Pinta. (1556)

La presenza in Assisi di Raffaellino non è considerata dallo studioso un evento insolito e isolato a queste date, affermando che egli era sicuramente impegnato in altri lavori per la cattedrale di San Rufino: pagato il 4 ottobre 1556 per dipingere, probabilmente a fresco, la cappella della confraternita di Santa Chiara nella Cattedrale: «E più o pagato a m° rafaielle fiorire dodece per fare pionieri la Capella nostra in santo Rofino». A pochi giorni di distanza, il 9 ottobre 1556, un altro pagamento di dodici fiorini viene effettuato al maestro Rafaello «Per havere dipento il battesimo et la cassa di San Rufino», cioè gli sportelli del fonte battesimale, e il sarcofago antico, usato per la sepoltura del primo vescovo di Assisi. Insomma, le notizie d'archivio a disposizione inducono E.genovesi ad affermare che in Assisi l'attività di Raffaellino del Colle si è protratta, anche se con intervalli per oltre due anni. Tenendo però in considerazione che gli sportelli del Battesimo di Cristo sarebbero bisognosi di essere liberati da vecchie verniciature e la Salma di San Rufino è mancante di parti fondamentali utili per proporre qualsiasi attribuzione, non è da considerarsi un'attribuzione sicura. Parallelamente però, va tenuto in considerazione che l'eventuale presenza in Assisi di Raffaellino del Colle non sembra essere in conflitto con la cronologia della sua attività finora conosciuta. Se la cronologia non si sovrasta, ed E.Genovesi propone l'attribuzione della Volta di Palazzo del Governatore a Raffaellino, M.Droghini al contrario, cambiando una sua precedente opinione (2001), afferma con decisione che «Il biturgense non è assolutamente presente negli affreschi della Volta Pinta i quali, a livello stilistico, si distaccano dagli sportelli di San Rufino». Nella questione come ha ipotizzato Elvio Lunghi, più presumibilmente potrebbe entrare il pittore Raffaele Coda da Rimini. Prima di passare alla Resurrezione di Cristo dell'Oratorio di San Rocco (1559 ca.) a Sansepolcro, rimanendo in tema di opere dimenticate parzialmente dalla critica, si deve anche citare l'Immacolata Concezione (1555-1556) di Mercatello sul Metauro. 

Mercatello sul Metauro (PU), Pieve Collegiata, olio su tavola: Immacolata Concezione.  (1555-1556)
Mercatello sul Metauro (PU), Pieve Collegiata, olio su tavola: Immacolata Concezione. (1555-1556)

L'opera si pone in una fase di chiusura del proficuo rapporto professionale instaurato da Raffaellino con il Ducato di Urbino. La Pieve Collegiata di Mercatello dedicata ai Santi Pietro e Paolo (cui si aggiunse nel secolo XV) Apostoli, si affaccia su Piazza Garibaldi, la principale del paese custodendo la tavola sull'altare della Confraternita della Concezione. L'incarico di realizzare il dipinto fu dunque quasi certamente affidato al biturgense dalla suddetta confraternita. Come ci riferisce il Rossi (1938), la visita pastorale del vescovo Bojardi, avvenuta negli anni '40 del '700, descrive scrostata «in variis partibus» la «Tavola della Concezione di Raffaellino del Colle» e per questo ne delibera la sostituzione con un altro dipinto. A tale disposizione si rimediò con un restauro, eseguito prima della visita pastorale del 1769 quando la tavola è ricordata «lacera, et decorticata erat, ad presens bene accomodata». Praticamente dimenticato dalla critica, assetata da fonti locali manoscritte tardo ottocentesche a Benvenuto Tisi detto il Garofalo, la pala è stata restituita a Raffaellino da Luigi Serra (1922-23). Il dipinto è stato poi rivalutato da Dal Poggetto (1983 e 2001) e unito, supponendo che Francesco Menzocchi (l'artista che abbiamo visto affiancare Raffaellino anche a Pesaro) sia l'esecutore del Padre Eterno benedicente, agli affreschi dell'Imperiale pesarese (1530-32). Ipotizzando l'intervento del Menzocchi nel Dio Padre, proponendo un paragone con quello nel San Paolo detta precetti a due vescovi (Forlì, pinacoteca Civica) del maestro forlivese che data agli anni trenta, ma eseguita più probabilmente attorno al 1549. Sempre Dal Poggetto suggerisce poi il nome di Camillo Mantovano quale autore del repertorio vegetale (ricordiamo la sua attività con questi temi all'Imperiale). Successivamente A.Nesi (2004), sostenendo la datazione al 1530-31, afferma che nell'opera non emerge il cromatismo "spento" e "freddo" della tarda produzione di Raffaellino. Nesi, tuttavia, ammette anche che la resa coloristica, da lui avvicinata- tra gli altri- al Bronzino, "stacca prepotentemente" dai lavori (accesi) degli anni venti. Lo studioso, esprimendo un'opinione che non tiene conto ad esempio, Droghini (2019) «del putto reggicorona a sinistra nella Madonna delle Grazie di Sansepolcro (1555 ca.)» nota altresì che gli angioletti in volo «ben difficilmente possono considerarsi frutto di un momento creativo diverso rispetto ai putti reggitenda» affrescati dal biturgense sulle pareti della Sala del Giuramento all'Imperiale 1530 ca. Droghini (2001 e 2019) propone la datazione tarda, accettata da Barbara Moreschini (2005), affermando anche la Pina autografia della tavola: la vegetazione (era un esperto in materia) e così anche il Padre Eterno. Gli allungamenti delle figure, seppur già annunciati negli anni precedenti, si ritrovano a loro volta conformi nell'opera estrema di Raffaellino, la Madonna con il Bambino in gloria e santi dell'oratorio di Sant'Agostino di Perugia del 1563. Da legare come afferma Droghini, al sostanziale aggiornamento stilistico avvento a Firenze, nel 1548-1551, in stretto contatto con Bronzino, sono poi gli incarnati non più vivi, di un effetto marmorizzato (delicatissimo nella composizione della miscela tonale e dei chiaroscuri). Il volto della Vergine combacia con quello della quasi contemporanea protagonista della Madonna delle Grazie di Sansepolcro ma non sempre questo accade. Raffaellino utilizza modelli anche a distanza di anni, Ciò spiega perché anche Dal Poggetto vedeva gli angioletti di contorno simili a quelli di San Lorenzo a Sansepolcro.

Sansepolcro (AR), Oratorio di S.Rocco, olio su tavola: Resurrezione di Cristo. (1559ca.)
Sansepolcro (AR), Oratorio di S.Rocco, olio su tavola: Resurrezione di Cristo. (1559ca.)

Arrivati al 1559 ca. La Resurrezione di Cristo dell'Oratorio di S.Rocco a Sansepolcro . L'opera è da considerarsi una replica con varianti del dipinto realizzato da Raffaellino nel 1525 per la cattedrale di Sansepolcro (Imm.5). Il dipinto fu realizzato per la chiesa di San Rocco che a sua volta fu fatta edificare dalla Compagnia del Crocifisso nel 1554 e si presenta come una chiesa semplice ad un'unica navata. A partire dal Farulli (1714) tutta la tradizione è d'accordo nell'assegnarlo a Raffaellino. In questa è compreso anche il Mancini (1837) il quale ci tramanda la notizia che Raffaellino, per la cappella dei Ss. Egidio e Arcano in Cattedrale:

«imitando lo stile di Giulio Romano suo precettore e di Raffaello d'Urbino, colorì una Risurrezione di Gesù Cristo, ch'è quella in S.Rocco, in cui assai bene espressa mirasi l' imponente maestà di Dio che risorge, e le mosse varie di spavento di quei militari che il Sepolcro ne custodivano cosicché fu opera lodata assai. Similmente per la chiesa cattedrale lavorò un'altra Resurrezione di N.S. che al presente appresa scorgesi nella tribuna, o coro dè canonici ed in questo dipinto la figura del Salvatore del tutto l'altra assomiglia sopradescritta». Lo studioso però cade in errore, perchè l'opera lodata assai è la Resurrezione che ancora oggi si trova nella Cattedrale di Sansepolcro e nella quale il pittore, appena terminata la permanenza nella bottega raffaellesca, evidenziò un'esecuzione accurata. Per la Resurrezione in questione invece, realizzata direttamente per la Compagnia e non trasportata dalla Cattedrale, il biturgense sembra preferire un'esecuzione disinvolta in cui trovano posto anche effetti di non-finito (notare il paesaggio rimasto in uno stato di abbozzo): questo modo di fare, al contrario di come pensava Corciu (1994) datando l'opera agli anni '30 (come anche è indicato nella chiesa stessa), conferma una datazione vicina alle opere di fine attività; in particolare all'Assunzione della Vergine di Città di Castello. La costruzione della chiesa di S.Rosso sopra l'Oratorio avvenuta dopo il 1554, può ulteriormente provare quest'ipotesi di datazione tarda. Si può quindi pensare che Raffaellino, per il nuovo edificio, fu incaricato di eseguire la Resurrezione.In questa è ancora sfruttato il repertorio iconografico giuliesco e raffaellesco precedente ed ecco che il Cristo balzante fuori dal sepolcro, i due soldati in basso a destra e il soldato con lo scudo a sinistra, sono copia fedele del disegno del Louvre utilizzato per la Resurrezione precedente. Raffaellino introduce anche un particolare estraneo al tema: la figura in fondo a sinistra con i capelli al vento, probabilmente realizzata da un collaboratore, proviene dall'arazzo raffaellesco della Pesca Miracolosa. Con l'Altare del Crocifissochecomprende: L'Annunciazione negli sportelli del lato esterno e S.Lungino e Centurione nel lato interno degli sportelli, si presenta invece l'ultima opera per la regione marchigiana. Ci troviamo a Sant'Angelo in Vado nella chiesa di S.Filippo (nella stessa cittadina in S.Maria dei Servi ricordo la Sacra Conversazione). Il vescovo Fabretti nel resoconto della sua Visita Pastorale (1737) scrive: «In quo intra è imago Annunciationis B.M. Virginis, intus vero est simulacrum SS. Mi Crucifixi.. ex alia vero parte imagines rappresentant duos milites de manu Raffaellus a Colle». Questa notizia è però ignorata fino alla recensione del Fontana (1973) che, rifiutando la tradizionale attribuzione a Federico Zuccari, riporta gli sportelli a Raffaellino. Lo studioso inoltre cerca di proporre una datazione e, confrontando giustamente l'opera con la seconda Annunciazione di Città di Castello, pensa al 1543 ca. in seguito Dal Poggetto (1983) anticipa tale data al 1537-39. La collocazione cronologica delle tele, alla luce di ritrovate prove documentarie, è da spostarsi alla fine degli anni '50 non lontano dalla seconda Annunciazione e dall'Assunzione di Città di Castello. A queste gli sportelli vadesi si avvicinano nella scelta dei colori, nell'utilizzo di tonalità spente di colori e per una pittura più sciolta e con meno spessore. L'identica soluzione con cui sono realizzate le nuvole che, assumendo una caratteristica propria di questi anni, si allontanano dalle precedenti tipizzazioni artigianesche.

Si parlerà ora, commissionata da Antonio Libelli, dell'Annunciazione della Vergine da S.Domenico e dell'Assunzione della Vergine dipinta per Giacomo Albizini figlio del Bartolomeo committente della ricordata Deposizione della croce. In queste tavole tifernati dove tutto si trasforma in ricchezza visiva, accentuata da un segno elaborato e decorativo. Raffaellino differenziandosi dallo stile espresso fino alla prima metà degli anni '50, ci offre una pennellata sicura e liberata dalle costrizioni del disegno. È perciò significativo nominare il Guardabassi che accorgendosi di questo nuovo modo di dipingere tipico dell'ultimo Raffaellino, descrive nel caso dell'Assunzione un dipinto in cui «c'è poca correzione del disegno e soverchia disinvoltura del pennello». 

Città di Castello (PG), Pinacoteca Comunale, Assunzione della Vergine. (1560)
Città di Castello (PG), Pinacoteca Comunale, Assunzione della Vergine. (1560)

L'Assunzione della Vergine di Città di Castello riflette bene, nell'ampia e orchestrata composizione, le nuove acquisizioni che consentono al pittore di Borgo di attingere una propria varietà di quello stile grande e monumentale da lui assaporato per la prima volta negli anni romani. La Sapori (1976) fa notare come sia «Da osservare che ad aiutarlo in ciò non sono soltanto le nuove deduzioni da Giulio che pure possono facilmente enumerarsi: per l'impaginazione dell' Incoronazione di Monteluce, per l'ampiezza della prova paesistica, compresa l'esibizione fantasiosa di monumenti antichi, dall'analogo brano della Visione di Costantino e della Lapidazione di Genova, il cui cartone circolava in quegli anni per l'Umbria». Il recupero di uno stile sia pur relativamente grande e severo, trova qui una completa motivazione solo se si tiene conto: dei risultati conseguiti negli anni pesaresi e del fecondo scambio che Raffaellino continua a intrattenere in questi anni con Giorgio Vasari. Ad esempio non sarà un caso che la composizione a più piani dell'Assunta si apra con San Paolo genuflesso in modo assolutamente simile a quello che si vede nella Assunzione di Vasari nella Badia di Firenze (figura dell'apostolo in primo piano a sinistra). Ricordino che tanto Raffaellino acquisisce da Vasari, quanto tanto avviene il contrario. A Tal proposito presentando la pala dell'Annunciazione seconda di Raffaellino vorrei riportare le parole della Barocchi che osserva un'influenza esercitata sul maggiore collega, nel momento in cui l'aretino esegue la pala con "Madonna e Santi" già in S.Sebastiano ad Arezzo. Esaminando questa pala ha notato, fra altre considerazioni che il «Fulminante Eterno plana alla Raffaellino del Colle»

Città di Castello (PG), Pinacoteca Comunale, olio su tavola: Annunciazione della Vergine.  (1559 ca.)
Città di Castello (PG), Pinacoteca Comunale, olio su tavola: Annunciazione della Vergine. (1559 ca.)

L'Annunciazione cosiddetta "seconda" per distinguerla dal dipinto di analogo tema di alcuni anni prima, proviene dal terzo altare a sinistra dalla chiesa tifernate di S.Domenico dove, secondo il Certini (1728), era posta nell'altare Libelli (sul quale erano riportati i nomi di Antonio Libelli e di Bianca Gestati). Fino all'inizio '900 la storiografia ha assegnato questo dipinto ad altre personalità artistiche come: Raffaellino da Reggio, Parmigianino, fratelli Zuccari.. Tutto riporta a Raffaellino del Colle ed a un gruppo di opere da lui realizzate a cavallo tra il sesto e il settimo decennio del '500. Di fronte alla prudente compitazione raffaellesca del dipinto più antico si vedano qui i frequenti ricorsi a un formalismo virtuosistico (gli svolazzi sempre più insistiti e contorti dell'angelo, la inconcludente sequenza di piani sempre più contratti, da sinistra a destra, nel manto della Vergine che si prolunga artificiosamente per l'intera lunghezza della predella) che punta invece decisamente verso soluzioni bizzarre, come nel curioso collettore di luce che fora la nube, resa con il consueto andamento stratigrafico. In essa, oltre ai nomi e allo stemma dei committenti, sono presenti ai lati delle colonne figurette di profeti e sibille, mentre la predella raffigura tre episodi della vita della Vergine (Adorazione dei Pastori, Sposalizio e Fuga in Egitto), due figure di domenicani in meditazione sui libri e due angioletti, ciascuno dei quali reggente una pergamena parzialmente arrotolata: una scritta "A.D", che stà ovviamente per "Anno Domini", l'altra invece con la data "1560". Rimandano a tale periodo (maggiore vicinanza al linguaggio di Giorgio Vasari, con cui collabora tra 1540 e 1545, e si allontana dai modi raffaelleschi) il cromatismo smorzato dei colori, il raffinato calligrafismo, l'uso più sciolto del pennello, il modellato è qui più compatto, le nuvole che cambiano, i panneggi più controllati..La pala dell'Annunciazione come sembra, non è lontana dall'Assunzione nella stessa Pinacoteca. Infine la cornice in legno dorato che fa da decorazione alla monumentale pala dell'Annunciazione, destinata all'altare di Antonio Libelli e Bianchetta Gestati, ritenuta per molto tempo perduta, è invece visibile nella chiesa della Madonna delle Grazie a Città di castello. L'opera risulta entrata a far parte delle collezioni comunali nel 1878. L'Assunzione della Vergine, proviene dal quarto altare a sinistra nella chiesa di San Francesco a Città di Castello, di proprietà della famiglia Albizzini. A partire dal Conti (1627) è stata attribuita a Raffaellino del Colle. Anche non si rintracciano i documenti originali di commissione, la sua storia è ricostruibile tramite le notizie del Certini e di Berto Alberti. Il Certini (1728) ci informa come «l'Altare dell'Assunzione di Maria Vergine» in S.Francesco sia «opera grandiosa e ben condotta di Rafaellino dal Borgo» e che a commissionare la sua esecuzione fu la famiglia Albizini. Non fu però, come fino ad ora si è creduto «Il ritratto a mani giunte a destra in basso sembra essere, infatti, quello di Antonio di Bartolomeo Albizini, patrono della cappella». Il vero committente è nominato con chiarezza da Berto Alberti che, in un ricordo del suo Diario datato 25 luglio 1588, scrive come Giacomo Albizini di Città di Castello (questi era il figlio del Bartolomeo oche aveva commissionato al Nostro la Deposizione della chiesa della Madonna delle Grazie e il nipote dell'Antonio Bartolomeo sopracitato). La datazione al 1560 è confermata anche dal modo particolare di dipingere che, espresso a partire dalla seconda Resurrezione di Sansepolcro, è caratterizzato come già ricordato, da una distribuzione più disinibita della materia pittorica (riscontrando anche qui effetti di non-finito come nel manto di S.Paolo). Lo studioso Droghini ricorda appunto il Guardabassi che, nel 1868, giudica il dipinto caratterizzato «da poca correzione nel disegno e soverchia disinvoltura di pennello» e che forse questo non fu gradito al committente. Nel testamento di Michelangelo del Colle figlio di Raffaellino (datato 29 gennaio 1567 e pubblicato da Degli Azzi) è infatti scritto «A Mesere Jacomo di Meser Bartolomeo Albizini di Città di Castello per essere sopragato d'un opera a lui fatta, scudi 20». L'opera fu forse eseguita con la collaborazione di aiuti. La tavola risulta entrata a far parte delle collezioni comunali nel 1878. Prossima a tali dipinti è la prova anch'essa tifernate della Presentazione di Maria al Tempio e l'ennesima della chiesa della Madonna delle Grazie di Città di Castello. 

Città di Castello (PG), Pinacoteca Comunale, olio su tavola: Presentazione di Maria al Tempio. (1560 ca.)
Città di Castello (PG), Pinacoteca Comunale, olio su tavola: Presentazione di Maria al Tempio. (1560 ca.)

È presumibilmente l'ultima opera realizzata da Raffaellino per questo edificio di culto ed eccetto che dal Corbucci (1931) e da Dal Poggetto (1981) è stata attribuita al Nostro a partire dal Conti (1627). Il Mancini (1832) ci riferisce inoltre che la famiglia Uccellari fu la committente della tela passata poi alla famiglia Bruni. Collocabile stilisticamente attorno al 1560 (pienamente sicura e libera dal disegno come le ultime opere viste), è presente in alcuni ritratti in primo piano un fare realistico che, tipico dell'ultimo Raffaellino, si differenzia dai caratteristici modelli raffaellineschi (visibili tuttavia nei personaggi in secondo piano). Bisogna infine notare la complessa costruzione della scena (atipica) e il fatto che il tempietto e la statua rappresentati sulla destra possono derivare dagli Arazzi di Raffaello (Sacrificio di Listra e Predica di S.Paolo). 

 Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, olio su tavola: Sacra Famiglia con S.Giovanni Battista. (1560)
Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, olio su tavola: Sacra Famiglia con S.Giovanni Battista. (1560)

Sempre ai primi anni '60 va collocato un nuovo contatto di Raffaellino con Perugia che porterà all'esecuzione, rispettivamente per la chiesa e per la Confraternita di Sant'Agostino di due opere: nel 1560 della Sacra Famiglia con S.Giovanni Battista, attualmente conservata presso la Galleria Nazionale dell'Umbria e nel 1563 durante un altro soggiorno perugino, l'ultima opera raffaellinesca del nostro percorso (che sicuramente potrà essere ampliato negli anni) intitolata a la Madonna in Gloria con il Bambino e i Santi Giacomo, Filippo, Domenico, Agostino e Francesco. In questo, anche se vengono proposti arcaici ricordi perugineschi, è ancora significativamente presente, a quattro decenni di distanza, il ricordo iconografico della scuola raffaellesca. Le rovine antiche sullo sfondo e la posa del S.Agostino sono riprese dal Martirio di S.Stefano di Giulio Romano. Prendendo in esame la Sacra Famiglia (Imm.50) l'opera dipinta per la chiesa perugina di Sant'Agostino, dov'è segnalata da Raffaello Sozi (1589) il quale ricorda che «La tavola di Nicolò Febo degli Scotti è di buona maniera e mano di Raffaello Dal colle del Borgo eccellente pittore». L'attribuzione a Raffaellino, ancora in un periodo in cui il quadro era fresco di esecuzione, è confermata da Cesare Crispolti (1597), conoscitore d'arte perugino. L'ultimo a citare la tavola in Sant'Agostino è Baldassarre Orsini, nel 1784. Dopo la soppressione napoleonica delle corporazioni religiose (1810), il dipinto entrò nella raccolta dell'Accademia di Belle Arti di Perugia che dal 1813 aveva sede all'ex convento degli Olivetani di Montemorcino nuovo. Nel 1887 Angelo Lupattelli segnala il quadro nel Palazzo dei Fiori, divenuto poi sede della Galleria Nazionale dell'Umbria. Custodita a lungo nei depositi della Galleria, dove viene citata da Giovanni Cecchini (1932) e da Paolo Dal Poggetto (1981 e 1983), l'opera restaurata ha trovato una collocazione stabile nel percorso del museo perugino. Attualmente in restauro all'Università della Tuscia (in tema due tesi che ci aggiorneranno sui nuovi studi, seguite da Paola Pogliani e Maria Ida Catalano), ringrazio per le informazioni Maria Cristina Tomassetti, restauratrice della Galleria Nazionale. Questa tavola inoltre, come ricorda G.Giappesi (1710) doveva essere accompagnata da una predella, oggi dispersa, con la «Pietà in piccolo» e con riportato il «millesimo 1560» ossia l'anno che dunque è sicuramente anche l'anno di esecuzione della Sacra Famiglia. L'opera pertanto precede pertanto di tre anni l'ultima prova conosciuta di Raffaellino licenziata nel 1563 e conservata presso l'oratorio di Sant'Agostino, annesso alla chiesa da cui proviene il quadro in esame. Ormai più che sessantenne il pittore dimostra ancora una grande capacità- associata alla qualità- nel dipingere, speriamo ancor più apprezzabile, risolta dopo il restauro la causa dell'abrasione che interessava la pellicola pittorica. Il dipinto è tipico esempio della produzione raffaellinesca offerta attorno agli anni '60, segnata sia dal dialogo con la coeva pittura centro-italiana, sia dall'aggiornamento condotto durante il soggiorno fiorentino del 1548-1551. I confronti più stretti si possono istituire con l'Assunzione della Vergine (1560 ca) e l'Annunciazione dell vergine Libelli (1559 ca.), entrambe conservate nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello. La caratterizzazione fisionomica dell'angelo di sinistra e di San Giovanni Battista ricordano infatti, rispettivamente, quella del putto tra le nuvole a destra dell'Annunciazione Libelli e quella di alcuni apostoli (ad esempio il discepolo al centro che guarda in basso) nell'Assunzione Tifernate. Decisamente schematica si presenta invece l'impostazione compositiva della scena, definita da Francesco Santi (1985) di «arcaismo peruginesco» e in linea con le scelte tarde dell'artista e la croma è ormai del tutto smorzata rispetto agli esempi del lontano passato. Droghini (2019) sul piano iconografico affianca la tavola della Galleria Borghese in ricordo del dialogo intimo tra il Bambino e San Giuseppe, nella figura di Gesù e «nella costruzione a emiciclo dell'edificio alle spalle dei protagonisti». Una copia della Sacra Famiglia, databile a cavallo tra Cinque e Seicento, di proprietà del Museo Civico Diocesano di Visso, documenta l'apprezzamento che dovette riscuotere l'opera di Raffaellino. Prima di passare all'ultima opera già introdotta, per Perugia, tra il 1561 e 1562 a Sansepolcro nell'altare maggiore di S.Antonio Abate, lasciò un'altra Lunetta con il Padre Eterno e angeli. La tavola non ha particolarmente interessato gli studiosi fino a che, la Facchielli nel 1998 ha presentato il suo contratto di commissione in cui compare chiaramente il nome di Raffaellino del Colle come esecutore. In questo documento, datato 2 novembre 1561 è infatti indicato come «Raffaelle del Colle» sia tenuto a dipingere un «Nostro dio padre in del mezzo tondo.. e angioli alli fianchi» da collocare nel «Tabernaculo delo altare grande» della chiesa di S. Antonio. Ci troviamo quindi al termine dell'attività raffaellinesca, in una perfetta unione stilistica (quel colore poco squillante e tonalmente più piatto) con le ultime opere di Città di Castello e Perugia. 

In particolar modo con l'ultima, Madonna in Gloria con il Bambino e i Santi Giacomo, Filippo, Domenico, Agostino e Francesco. Probabilmente eseguita tra il settembre 1563, attestato (da un documento perugino) a Perugia e il dicembre successivo quando Eusebio del Bastone, lodandola, la stimò 60 scudi (Bombe 1926). Assegnata dagli antichi storici perugini (Orsini, 1784; Siepi, 1822; Gambini, 1826) al pittore Orazio Alfani, solo in alcuni punti localizzati nella sua parte superiore si può forse notare l'intervento di un aiuto. Poiché rappresenta l'ultima prova conosciuta dell'attività raffaellinesca, siamo di fronte al testamento pittorico dell'artista in cui, ancora a fine carriera, sono sfruttate le iconografie romane filtrate ora nel peruginismo della prima formazione. Infatti, se nella posa del S.Agostino e nella vallata di fondo non è difficile vedere l'esempio iconografico del Martirio di S.Stefano di Giulio Romano, l'impostazione della scena può derivare da una sorpassata divisione a scacchiera, forse espressamente richiesta dalla committenza: tipo quella della Madonna in Gloria con il Bambino e i Santi Nicola da Tolentino, Bernardino, Gerolamo e Sebastiano (Perugia Galleria Nazionale) dipinta sempre per S.Agostino, dal Perugino. Riguardo al modo di dipingere si osserva infine una pittura che, totalmente piatta e distribuita molto diluita, sfiora la tecnica dell'acquarello. 

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